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di Maurizio Crippa

Il Foglio, 7 settembre 2024

Il 70esimo suicidio in otto mesi, anche sette agenti si sono tolti la vita. Situazione tragica, politica e società assenti. Italia fuori dallo stato di diritto. Una questione culturale e democratica che riguarda tutti. Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa polizia penitenziaria, dando ieri l’annuncio che un detenuto 18enne di origini egiziane è morto carbonizzato nella sua cella a San Vittore, un materasso incendiato, ha specificato con prudenza “non crediamo possa parlarsi di suicidio”. Ha ragione ma anche tragicamente torto, per due motivi diversi. Il primo è tecnico, incendiare un materasso è mettere a rischio, per protesta, la propria vita. Il secondo è che nel 2024 i suicidi di detenuti sono 70, record inaccettabile, cui vanno aggiunti i sette agenti che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno. E quando 70 cittadini affidati alla custodia dello stato e sette rappresentanti di quello stesso stato si tolgono la vita, è più corretto parlare di omicidio di stato. Non è una forzatura polemica, è la constatazione politica che queste morti sono il frutto diretto, e forse da qualcuno messo in conto, non solo di un disinteresse civile e umanitario, ma del tradimento dello stato di diritto e dello stesso dettato costituzionale.

Nel quale la pena è rieducativa e non solo afflittiva: “Si va in carcere perché si è puniti e non per essere puniti”, secondo un amaro aforisma garantista. Va detto inoltre che Joussef Moktar Loka Baron era in custodia cautelare e in attesa di giudizio, e una perizia psichiatrica precedente lo aveva certificato non compatibile col carcere. Una comunissima storia ignobile, se si tiene conto che i detenuti in attesa di giudizio sono diecimila su 60 mila, oltre a quelli che per gravi motivi - tossicodipendenze, malattie - non dovrebbero starci. Eppure, ha denunciato Antigone, in soli 12 mesi nelle patrie galere ci sono 4.000 detenuti in più, e il sovraffollamento è fuori controllo, un tasso del 130 per cento. È dunque giustificato, davanti a una mattanza che non ha eguali nei sistemi penitenziari delle democrazie occidentali, parlare di omicidi e non suicidi. E questo tenendo ovviamente presente di quanto sempre più spesso le vittime sono gli agenti: come ha denunciato l’Osapp il governo - pur a parole securitariamente attento a rendere “efficiente” il regime di detenzione, “sta assistendo passivamente al collasso del sistema”, ha denunciato il segretario Leo Beneduci. Situazione fuori controllo e fuori stato di diritto, e sul governo pende un duplice capo d’accusa.

Il primo di disinteresse e inefficienza. Le misure di riforma carceraria appena approvate, secondo Patrizio Gonnella di Antigone, “non incideranno sul sovraffollamento essendo afflitte da minimalismo”. I meccanismi previsti per la liberazione anticipata sono farraginosi e lenti - l’unica proposta risolutiva è quella di Roberto Giachetti, che giace inascoltata dal 2022 - sulle strutture si è messo poco e anche sulle necessarie assunzioni di mille agenti tutto è slittato al 2025. Non si intravede all’orizzonte una vera riforma carceraria, riflettere seriamente su indulto e amnistia è diventato tabù con i governi “panpenalisti” (gialloverde prima e l’attuale).

Il secondo capo d’accusa è culturale. Il Guardasigilli Carlo Nordio può essere animato dalle migliori intenzioni, ma la sua idea di “umanizzazione della pena” è andata a sbattere contro una maggioranza che si inebria con gli aumenti dei reati e delle pene, che concepisce il sistema sociale come “prisonfare”, puro controllo basato sul carcere. Si parla anche di abolirlo, il carcere, qualcuno ha ricordato che Gustavo Zagrebelsky lo scrisse in prima pagina di Repubblica nel 2015: “Che cosa si può fare per abolire il carcere”. Siamo fermi alla domanda retorica. Carlo Maria Martini scrisse che si doveva rifiutare l’esatta corrispondenza tra pena e carcere e respingerne la centralità. Nulla di fatto.

Chiunque si occupi di queste materie sa che l’utopia abolizionista è impraticabile e che l’unica prospettiva è lavorare alla riduzione del danno: contenere “la sofferenza del carcere”, tenervi per il minor tempo necessario il minor numero di persone, depenalizzare e attivare misure alternative. Una maggioranza sorretta da elettori che, quando va bene, la pensano come Delmastro sulla “Mecca” dei galeotti non può fare molto altro, ma questo non l’assolve. Certo, anche gli altri partiti sono “lo stesso coinvolti”, direbbe il poeta. L’ultima riforma organica del sistema carcerario naufragò per colpevole pavidità del governo Gentiloni (ministro Orlando).

Dei governi Conte-Bonafede nemmeno a parlare, con Draghi cadde anche la pur limitata riforma Cartabia. Ma ovviamente, come ha scritto sul Foglio Francesco Petrelli, presidente delle Camere penali, non basta al governo attuale accusare le “omissioni” dei precedenti. Il punto è molto più grave, culturale e perciò politico. Non è solo disinteresse morale, è che la politica italiana, in fondo, la pensa come il popolo italiano. Punire, senza nemmeno troppo sorvegliare. Questa è la verità più grave. Un giovane giurista che si chiamava Aldo Moro diceva, già ai suoi tempi, che occorreva cercare “non tanto un diritto penale migliore quanto qualcosa di meglio del diritto penale”. Il tempo è scaduto.