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di Vincenzo Di Paolo

L’Unità, 20 agosto 2023

Continuiamo a riempire le carceri generando contesti di sofferenza, in cui spesso è difficile riconoscere persino dove sia lo Stato di diritto. Gli orologi sui muri del carcere di Monza, lungo il corridoio che separa le diverse sezioni, sono fermi e segnano ognuno un’ora diversa. Non funzionano. O forse funzionano benissimo, e sono lì a ricordarci che nel carcere il tempo assume un senso diverso. Sono lì a interrogarci.

Siamo alla ricerca del senso vero del vivere e ci chiediamo se esista davvero un destino di eternità per l’uomo. Se questa eternità si concretizzi già nei nostri giorni. Il carcere è la condizione di chi vive un tempo sospeso, un tempo che può durare settimane, mesi, anni. Una vita sospesa che intanto passa. Mentre percorro quel lungo corridoio, in visita all’istituto di pena monzese insieme a Nessuno tocchi Caino, sono perseguitato da questo pensiero e non riesco a capire se quegli orologi fermi indichino già un principio di eternità o ne siano la negazione, o molto più banalmente siano un segno della condizione di degrado di quel luogo e della difficoltà di gestione e cura che ne deriva.

Il carcere di Monza, come molte altre strutture in Italia, sorge fuori dalla città, lontano dal centro, lontano da tutti gli altri luoghi di vita. È relegato lì, ai margini. Per raggiungerlo bisogna perdersi tra la tangenziale e qualche capannone industriale. Una distanza che riflette bene il distacco sociale verso questa realtà, verso chi la abita e la vive. Quello che succede dentro le carceri sembra non interessarci. Ci indigniamo per qualche giorno o per qualche ora quando la cronaca ci propone casi eclatanti di rivolte, abusi, torture, suicidi.

Ma torniamo presto a non curarcene. Nella casa circondariale di Monza sono presenti 669 detenuti, a fronte di una capienza massima regolamentare di 411 posti. Del totale dei detenuti presenti, 407 scontano una condanna definitiva sotto i quattro anni. Sono persone che potrebbero quindi accedere, secondo la normativa, a misure alternative. E che non riescono però a farlo perché mancano le condizioni, gli spazi, i luoghi per realizzarle e renderle attuabili.

Quella del sovraffollamento è l’urgenza prioritaria da affrontare. La struttura, che pure regge rispetto ad altri istituti, non riesce a garantire condizioni accettabili e dignitose. Il carcere è degrado. Miseria. Ma anche molta umanità. A Monza l’ho trovata negli occhi e nelle parole del comandante degli agenti penitenziari, nel suo modo di porsi con ciascun singolo detenuto, nella professionalità con cui resiste ai problemi che quotidianamente è chiamato ad affrontare. Il carcere è disperazione.

Sofferenza. Ma anche speranza. A Monza l’ho vista nello sguardo di giovani detenuti che hanno voglia di riscatto e desiderio di vita. Mi chiedo perché, se la pena debba svolgere una funzione riabilitativa e rieducativa, continuiamo a riempire le carceri generando contesti di sofferenza e degrado, in cui spesso è difficile riconoscere persino dove sia lo stato di diritto. La sofferenza di un detenuto è il degrado di uno Stato. E noi dovremmo costruire un modello diverso e alternativo, rispondente davvero ai dettami costituzionali. Il fatto è che la nostra società continua a vedere la pena come aspetto punitivo. E quindi il carcere diventa luogo perfetto per realizzare un fine vendicativo nei confronti di persone che saranno costrette a portarsi dietro il proprio reato, anche dopo aver scontato tutta la pena inflitta. Perché la condanna è anzitutto morale.

E abbiamo la convinzione che un individuo sia soltanto ciò che ha commesso, dimenticandoci invece che ogni uomo è un’infinita possibilità e che uno Stato di diritto, laico e democratico, deve perseguire l’obiettivo di un reinserimento sociale del condannato, garantendo la sicurezza sociale. Sicurezza che non viene costruita attraverso il sistema delle carceri, che diventano spesso luogo di educazione alla criminalità o che producono l’effetto di peggiorare, anziché migliorare, l’inclinazione di un soggetto che ha commesso reati. Non serve un sistema penale migliore. Serve qualcosa di meglio del sistema penale. Quegli orologi restino lì, appesi a quel muro. A ricordarci che lo sguardo eterno sulla vita è in fin dei conti la possibilità di riscatto quotidiano per tutti. E che nessuno di noi ha il potere di impedirlo o negarlo ad alcuno.