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di Andrea Venanzoni

Il Riformista, 19 agosto 2023

Il sociologo canadese Erving Goffman è stato il primo, studiando manicomi, caserme e istituzioni carcerarie, nel suo saggio “Asylums”; a delineare la figura della “istituzione totale”. Né, in argomento, possono essere chiaramente obliate le riflessioni del Foucault di “Nascita della clinica” e di “Sorvegliare e punire”.

L’istituzione totale, nel caso che ci riguarda il carcere, si presenta come elemento perfezionato di identificazione tra i dispositivi di controllo elaborati dallo Stato e la dinamica di punizione. Nel carcere non c’è solo espiazione; non c’è una mera separazione fisica del corpo del recluso, come quello del malato nell’ospedale, ma si registra anche una asfissiante cappa burocratica, di iper-regolazione e di controllo verticistico che schiude petali carnicini di dominio e di sottomissione spinti entrambi ai loro estremi. Il carcere non solo esercita il monopolio della coazione e della violenza legittima, esattamente come fuori dal suo perimetro fanno le organizzazioni pubbliche, ma impone una sua totalizzante comunicazione: i paradigmi espressivi sono ferocemente centralizzati, e non sono ammesse vulgate alternative.

D’altronde, come ha ampiamente dimostrato il criminologo Carlo Serra che al carcere ha dedicato mirabili pagine, molto spesso i detenuti per sfuggire alla ritenzione delle informazioni e alla imposizione di un linguaggio unico sono costretti a ricorrere a forme cruente di comunicazione non verbale, quale ad esempio l’automutilazione. E proprio la comunicazione si rende imperativo normativo, in questa prospettiva. In carcere il diritto, la regola, la norma rappresentano infatti la legittimazione non della salvezza del detenuto, né la garanzia della sua risocializzazione, ma la gabbia teorica dentro cui formulare l’ipotesi complessiva di società violenta, in quanto violentemente plasmata e vissuta.

Come ricorda l’incipit di quello straordinario affresco di violenza istituzionale che Franco Volpi inserì tra le scaturigini del nichilismo europeo, “Le 120 Giornate di Sodoma” di Sade, ogni compagine sociale che della ristrettezza faccia suo cardine nodale deve darsi un corpo di regole che non rappresenteranno più elemento di garanzia, quanto piuttosto certificazione dell’uso legittimo della violenza; e se in quelle pagine, i libertini minuziosamente dettano le loro regole, modellate dal flusso di comunicazione iper-centralizzato nelle bocche delle narratrici, nel carcere ogni regola tende a biforcarsi, essendo prima elemento teorico di garanzia e poi, nella pratica, funzione della trasgressione da punire - ogni volta che la regola sia stata violata o semplicemente non obbedita.

Lo Stato, e ogni sua istituzione, è un frammento organizzato di violenza. Lo intuì con sconvolgente lucidità il Roland Barthes di Sade, Fourier, Loyola, che lesse in combinato il pensiero di questi tre giganti, in apparenza diversi, ma costruttori di mondi in cui violenza e organizzazione sono unite tra loro in maniera solida e inestricabile.

La regola esiste quindi, nel carcere, solo come funzione di esercizio della punizione che essa porta con sé. Non è funzionale al mantenimento della pace sociale, in quanto il sociale in questo spazio conchiuso e iper-regolato non esiste: c’è solo la istituzione nella sua totalità, con i suoi atomi, i suoi granelli di carne. C’è del vero, tremendo, forse insostenibile, in quella frase di Jean Genet che ricordando i bravi borghesi intenti ad applaudire convinti le guardie mentre esse pestavano i detenuti incolonnati verso il carcere, ricorda come poi quegli stessi bravi borghesi siano divenuti nomi su placche commemorative, inghiottiti dalla tenebra di quello spettacolo tremendo di morte che furono Belzec, Majdanek e gli altri campi di sterminio.

Il tema è quindi il livello di degrado che un carcere sempre meno umano, sempre meno conforme ai precetti costituzionali, porta con sé, un degrado capace di uscire dal perimetro fortificato delle sue mura e di inquinare la società tutta.