sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di Michele Brambilla

huffingtonpost.it, 7 gennaio 2022

Colloquio con Nicola Boscoletto della cooperativa Giotto: “Noi facciamo la differenziata, e invece la prigione è un unico cassonetto in cui buttiamo tutto. Il lavoro salva chi ha sbagliato, ma è un privilegio riservato solo all’1.3 per cento. Le leggi sono buone, ma non sono mai applicate. Vi spiego, numero su numero, l’entità di un fallimento”.

Le citazioni si sprecherebbero anche. “Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una Nazione” (Voltaire). “Il grado di civiltà di un Paese si misura dalle condizioni delle sue carceri” (Dostoevskij). “Si dice che non si conosce veramente una nazione finché non si sia stati nelle sue galere. Una nazione dovrebbe essere giudicata da come tratta non i cittadini più prestigiosi ma i cittadini più umili” (Mandela).

Ma purtroppo delle carceri, o meglio dei carcerati, per dirla in francese, non frega niente a nessuno. Chi è fuori, pensa che chi è dentro se l’è cercata. Quando poi al dovere morale, oltre che costituzionale, di recuperare questa parte di umanità, che se la sbrighino i politici.

a i carcerati non portano voti. E quindi. Ma quanti di noi sanno, davvero, chi c’è in carcere? E perché c’è? E come si vive lì dentro? Nicola Boscoletto, 60 anni, padovano, presidente della Cooperativa Giotto che porta il lavoro (quello vero, come vedremo) all’interno del carcere, ci regala una definizione cui non avevamo mai pensato: i carcerati sono rifiuti indifferenziati. Terribile, ma è così.

“Il 2022”, ci dice subito Boscoletto, è stato annus horribilis per le carceri italiane. Per i postumi della pandemia?

“Chiariamo subito una cosa importante: le carceri erano un fallimento già prima della pandemia. Il Covid non ha fatto altro che mettere in evidenza un sistema che ha perso di vista, ormai da anni, lo scopo per cui ha senso di esistere. È un sistema chiuso in sé stesso, disumano e non solo nei confronti delle persone detenute, è un sistema incapace di dialogare con chi è diverso dallo Stato, un sistema che si difende da chiunque proponga una soluzione reale dei problemi”.

Perché annus horribilis?

“Parto dai suicidi: 84 in un anno”.

Detto così, si capisce poco...

“Allora glielo dico meglio: rapportati alla popolazione carceraria, danno una percentuale che è venti volte superiore a quella dei suicidi nel cosiddetto mondo esterno”.

E poi?

“Le recenti evasioni dal carcere minorile Beccaria di Milano sono un altro campanello d’allarme. Sui minori abbiamo pure uno dei sistemi tra i più avanzati nel mondo, ma non basta. Occorrono risorse economiche, ma prima di tutto persone che amino il loro lavoro, e ancor prima che amino la vita al punto di affascinare i giovani e chiunque incontrano. Mi permetta di citare due frasi che abbiamo appeso in due aree lavorative della Giotto all’interno del carcere di Padova”.

Permesso...

“Una è di san Giovanni Bosco: “Se questi ragazzi avessero trovato qualche amico che si fosse preso amorevolmente cura di loro non sarebbero finiti in questi luoghi”. La seconda è di una persona detenuta in Brasile, un pluriassassino evaso per ben dodici volte dalle irraccontabili carceri brasiliane: Josè De Jesù. Al tredicesimo arresto, grazie a un magistrato di sorveglianza che ha rischiato tutto sulla sua libertà, è finito in un carcere ‘umano’, dal quale era anche facilissimo evadere. Dopo tre mesi il magistrato lo va a trovare e, incredulo di trovarlo ancor lì, gli chiede perché non era evaso. Josè, con le lacrime agli occhi, gli risponde: dall’amore non si fugge”.

Una volta quelli della polizia penitenziaria si chiamavano “agenti di custodia”. Era una bella definizione, perché si custodisce solo ciò che ci è prezioso, ciò che si ama...

“Esatto. Il carcere dovrebbe essere il luogo in cui vengono affidate le persone per essere custodite, vigilate, amate, aiutate a migliorare e quindi a cambiare. Persone che potrebbero essere i nostri figli, mariti, mogli, fratelli, amici. Invece oggi è come accompagnare un proprio caro in ospedale e riprenderlo morto”.

Altra vecchia scritta che stava una volta nelle carceri italiane: “Vigilando redimere”...

“Oggi nessuno si preoccupa di redimere. Chi esce dal carcere è incattivito, abbrutito, non conosce un mestiere ed è evitato da tutti come la peste. Così la recidiva ufficiale è del 72 per cento, ma quella reale, cioè quella che comprende anche i reati commessi da ex carcerati e non scoperti, supera il 90 per cento. È come se ogni dieci pazienti ricoverati, nove ne uscissero morti. Oppure che ogni dieci studenti nove venissero bocciati”.

È vero che oltre ai suicidi ci sono molte morti sospette?

“Certo. Alcune sicuramente per mala sanità, ma direi in generale perché in carcere è più facile ammalarsi. Pensate che a volte la preoccupazione maggiore è far salire in ambulanza la persona detenuta perché se muore durante il viaggio, o poco dopo in ospedale, non va a finire nelle statistiche dei morti in carcere”.

Veniamo ai fatti di Santa Maria Capua Vetere...

“Hanno un nome e si chiamano pestaggi di Stato, trattamenti disumani e degradanti. Sono molto più diffusi di quanto si pensi. Non è corretto parlare di mele marce, bisognerebbe concentrarsi di più sull’albero (il sistema) che produce sempre più mele marce, disaffezione al proprio lavoro. Anche le mele marce sono vittime di un sistema”.

Il governo passato ha fatto qualcosa per cambiare questo sistema?

“Le rispondo con una domanda: che fine hanno fatto le dichiarazioni del presidente del consiglio Draghi e della ministra Cartabia?”

E questo nuovo governo? Che cosa si aspetta?

“Prima di tutto lasciamolo lavorare. E poi diciamo la verità: eredita un fallimento. Poi se questo governo, in particolare la premier, oltre che essere ferma sulla certezza della pena diventasse ferma anche sulla certezza del recupero, sicuramente potremmo fare dei passi in avanti. E non solo perché in questo modo rispetteremmo la Costituzione senza ricevere richiami e multe dall’Europa: ma soprattutto perché conviene alla nostra società in termini di sicurezza sociale e di risparmio economico. I detenuti recuperati, quando escono, non delinquono più”.

Dia un suggerimento a Giorgia Meloni...

“Venga a vedere! Non basta fare gite programmate in carcere, e neanche ispezioni improvvise: è necessario seguire l’intero percorso di esecuzione penale dei detenuti per capire se il sistema funziona. Conoscere da vicino tutte quelle realtà che funzionano e valorizzarle, senza preferenza alcuna. Come pure valorizzare tutte quelle persone dell’amministrazione penitenziaria capaci e meritevoli. Non si possono ricoprire ruoli senza averne le capacità, solo perché si è vinto un concorso. E qui è meglio che mi fermi”.

Questo governo, per quanto riguarda il carcere, ha detto che vuole puntare sul lavoro. Quante sono le persone detenute che lavorano all’interno delle carceri italiane oggi, dopo la pandemia?

“Allora, per prima cosa togliamo dal conto tutti i lavori alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, cioè i cosiddetti lavori domestici e i lavori di “pubblica in-utilità” dal carcere verso l’esterno: sono riconosciuti unanimemente come veri e propri sussidi diseducativi, che non abbattono la recidiva neanche di un punto percentuale; e spesso sono pure una forma di sfruttamento delle nuove povertà. Tolte quelle, le persone che in carcere hanno un lavoro vero - regolarmente retribuito e tassato - per cooperative e aziende esterne, su 56.500 detenuti in 189 istituti, sono circa 700”.

Cioè meno dell’1,3 per cento. Senta Boscoletto, le faccio una domanda banale: ma chi sono i carcerati? Perché “noi fuori” pensiamo banalmente: sono tutti delinquenti...

“Non è una domanda banale. È la cosa più importante da capire oggi. Allora: sono presenti persone che hanno pene o residui di pena brevissimi. Sono 1.344 quelli che hanno una pena inflitta minore di 1 anno; 2.575 con una pena tra 1 e 2 anni; 3.951 tra 2 e 3 anni. Se poi passiamo a quanto resta ancora da scontare, con una pena residua minore di 1 anno sono 7.067; tra 1 e 2 anni 7.212 e tra 2 e 3 anni 6.050. Se fate la somma arriviamo a 28.199 su 56.500”.

Insomma la metà dei detenuti deve scontare solo pochi mesi. E oggi, con le nuove norme, sembra destinata a scontarli tutti “dentro”, senza percorsi alternativi...

“Vale la pena di citare quanto detto dall’ex direttrice del carcere di Bollate ora direttrice del carcere Lorusso Cotugno di Torino: le persone che escono a fine pena costituiscono un fallimento”.

Poi ci sono i detenuti in attesa di giudizio. Quelli innocenti fino a prova contraria...

“Sono quasi 9.000 quelli in attesa di un primo giudizio e poco più di 7.000 i condannati non in via definitiva. Quindi le persone condannate in via definitiva, cioè colpevoli (salvo errori giudiziari, che esistono, basta vedere l’entità dei rimborsi) sono circa 40.000. Poi tenga conto che 28.000 hanno solo pochi mesi da scontare. Ecco chi c’è, nelle carceri italiane”.

Questo da un punto di vista dei numeri. Ma dal punto di vista umano, chi troviamo oggi in carcere?

“Il carcere oggi è diventato una discarica indifferenziata. Nelle nostre città facciamo più o meno tutti la raccolta separata dei rifiuti: umido, secco, carta e cartone, vetro e plastica, verde e ramaglie, eccetera. Ecco, per quanto riguarda l’essere umano siamo ancora a un unico cassonetto dove va finire tutto indistintamente”.

Se non capisco male: delinquenti veri insieme con poveri disgraziati...

“È così. In una parola, oggi il detenuto è, nella maggioranza dei casi, una persona pluri-svantaggiata. Se è in carcere vuol dire che qualche disagio di natura sociale lo ha sicuramente segnato. Si porta appresso poi problematiche di dipendenza (droghe, alcool, ludopatia); spesso è invalido, e se non lo è lo diventa; ha problemi psicologici destinati a diventare (se già non lo erano prima) patologie psichiatriche; diventa farmacodipendente, e così via, perché come vuole che li curino, in carcere.”

Extracomunitari?

“Su 56.500 detenuti, sono circa 18.000. E quasi tutti con problematiche serissime. Insomma, capite bene che per almeno i due terzi di chi sta dentro il carcere non è il luogo idoneo per aiutarli a reinserirsi nella società”.

Ma dove ha fallito, il modello italiano?

“Non ha fallito la nostra Costituzione. E neppure le leggi, gli ordinamenti e i regolamenti: al 90 per cento sono buonissimi. Hanno fallito le persone, che non hanno applicato quanto previsto. Prima di cambiare le leggi e di fare nuove riforme, la cosa più urgente è il cambiamento delle persone. Se non cambia la persona, in particolare il suo cuore, che vuol dire il suo approccio, possiamo fare anche riforme perfette ma non succederà niente. Bisogna avere sempre al centro lo scopo dell’azione che si persegue e occorre amare il proprio lavoro, tanto più se si tratta di seguire e curare persone che nella loro vita hanno sbagliato gravemente”.

Torniamo ai dati sul lavoro “vero”. Sono allarmanti. Ma come stanno assieme con quanto abbiamo letto l’anno scorso su diversi protocolli? Si parlava di migliaia di posti di lavoro...

“Eh appunto: un conto sono i protocolli, un altro la realtà. Oggi ottenere un lavoro in carcere è un percorso ad ostacoli, per non dire minato. Quando va bene una cosa (ad esempio la sintesi dell’educatore) spesso un’altra va male (ad esempio quella del magistrato di sorveglianza) e viceversa. Nel 2022 sono stati firmati dal Ministero e dal Dap protocolli per la creazione di circa 10.000 posti di lavoro qualificati. Ma solo a Padova, per fare un esempio, sono cinque anni che, come cooperative del carcere, abbiamo dato la disponibilità di 100 posti di lavoro vero. Risultato? nessuna risposta pervenuta”.

Com’è possibile?

“Gliel’ho detto, tutto è complicato dal sistema. La destra non sa quello che fa la sinistra e soprattutto non vuole che si sappia. Il fare assieme, il confronto, non è amato. La posizione più frequente è la difesa, guai a mettersi in discussione. Sono merce rara i direttori che, quando arrivano in un nuovo istituto, partono dal valorizzare quello che di positivo è stato creato in anni di duro lavoro da parte di tutti, ripeto tutti, amministrazione penitenziaria e società civile. E spesso le prime persone a non essere valorizzate nell’amministrazione penitenziaria sono proprio quelle capaci e meritevoli e che non hanno secondi fini”.

“Pessimista”, dice Tex Willer a Kit Carson...

“Non sono pessimista. Il mio giudizio è relativo a un sistema che è sotto gli occhi di tutti e che ha fallito. Ma conservo la speranza”.

E dove sta?

“Non nella politica e nelle riforme, anche se bravi politici e buone riforme sono necessarie. La mia speranza la ripongo nel cuore dell’uomo. Il dipinto dell’Icaro di Matisse spiega bene quello che intendo. L’uomo - tutti: non solo le persone detenute, anch’io, anche i magistrati, tutti - può diventare brutto, cattivo e nero al 99 per cento, ma gli rimane un puntino rosso, il cuore, da cui può sempre ripartire e cambiare il mondo perché ha cambiato, prima di tutto, se stesso. L’uomo di Matisse è immerso in un bellissimo cielo di colore azzurro con tante stelle gialle. L’uomo si salva e salva il mondo quando percepisce, o ri-percepisce, il suo rapporto con l’infinito, con la grande domanda di significato, di senso del vivere che rende l’uomo diverso da ogni altro essere, che rende l’uomo veramente uomo. Se non fosse così per chi finisce in carcere, ma non solo, non ci sarebbe alcuna speranza”.