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di Paolo Colonnello

La Stampa, 27 dicembre 2022

L’ex magistrato Gherardo Colombo e l’anno record dei suicidi in cella: “Più pene alternative”. Il 2022, tra i vari, tristi, primati, passerà alla storia per essere stato l’anno dei suicidi in carcere: 83 quelli contati finora, il numero più alto da dieci anni a questa parte. Non c’è un motivo preciso, o meglio: ce ne sono fin troppi.

Ma quello principale è che forse il sistema carcerario, così come lo conosciamo, non ha più molto senso. Anzi, per niente, come sostiene Gherardo Colombo, che si dimise nel marzo del 2007 dalla magistratura, dopo esserne stato uno dei più validi e noti rappresentanti, anche perii senso di ingiustizia che sentiva nel dover chiedere o confermare una condanna in carcere.

Cosa pensa, dottor Colombo, di questo numero abnorme di suicidi dietro le sbarre?

“È un dato assurdo che dipende da tante cose, alcune fuori dal carcere, altre dentro”.

Cominciamo da quelle “fuori”…

“Fuori c’è un grandissimo disagio sociale che crea molto rancore e che in conseguenza divide ed esclude le persone. E i risultati di questa esclusione sono anche il carcere: non si conosce ancora il numero di omicidi commessi nell’anno in corso, ma credo che interromperà la serie iniziata parecchi anni fa che vedeva ogni dodici mesi decrescerne il numero rispetto all’anno precedente. E un segno forte delle difficoltà che si vivono nel dopo Covid”.

Come riverbera sul carcere?

“Il carcere sta diventando sempre più una discarica sociale: ci va soprattutto chi è particolarmente fragile, debole, e avrebbe bisogno di essere in qualche modo aiutato”.

E i motivi “interni”?

“Il sovraffollamento, e le condizioni di vita tipiche di quella istituzione totale, che peraltro non cambierebbero di molto anche senza sovraffollamento, essendo il sistema carcerario pensato strutturalmente per punire, per “fare male” a chi vi sta dentro”.

Non è quello che la gente vuole?

“Certo, però non meravigliamoci se in carcere la percentuale di suicidi è di circa venti volte superiore a quella di chi sta fuori. E attenzione: il carcere è punitivo per tutti, guardie comprese, tanto che anche tra loro il numero di suicidi è elevato”.

La riforma Nordio, che tante polemiche sta suscitando, ha tra i suoi perni proprio una “modernizzazione” delle carceri. Che ne pensa?

“Il ministro ha parlato di depenalizzazione, la quale, seppure indirettamente, ridurrebbe la frequenza del ricorso al carcere: meno reati ci sono, meno persone vanno in prigione. Però la prima cosa che ha fatto è stato introdurre un nuovo reato”.

Per lei il carcere rimane da abolire?

“Sì, però intendiamoci. Certo non si possono chiudere le prigioni dall’oggi al domani. Però è necessario cominciare a ragionare in una prospettiva secondo la quale soltanto chi è pericoloso venga messo nelle condizioni di non nuocere, e collocato in un luogo, però, in cui tutti i suoi diritti, che non confliggono con la sicurezza delle persone, siano tutelati. In altre parole solo chi è pericoloso sta altrove, e ci sta finché è pericoloso. Proprio a tutela della collettività. Gli altri devono rispondere dei loro reati in un modo più sensato: bisogna potenziare le sanzioni alternative che già esistono”.

Davvero pensa che la società sia pronta a una cosa del genere?

“La società italiana pensa che sia giusto retribuire il male con il male. E questo si riflette sui programmi della politica: nessuno oggi proporrebbe l’abolizione del carcere nel senso che dicevo prima. Però vedo che tanti passi sono stati fatti recentemente in una direzione diversa. Teniamo conto che in Paesi più evoluti come la Norvegia non esiste ergastolo, nemmeno per persone come Anders Breivik, responsabile dell’omicidio di 70 ragazzi”.

Ed è giusto?

“Si è iniziato a prendere le distanze dal vedere la pena come “retribuzione”. Non è detto che alla fine dei suoi 22 anni Breivik uscirà: verrà valutato e se sarà ritenuto ancora pericoloso sarà trattenuto altri 5 anni e poi di nuovo valutato. Le ricordo che, in generale, dove il sistema carcerario si mostra flessibile, interprete di un vero percorso di reinserimento, le recidive sono bassissime”.

Diceva che sono stati fatti tanti passi. Per esempio?

“Per esempio la valorizzazione della “giustizia riparativa”, di cui dieci anni fa si faceva fatica a parlare negli incontri pubblici perché incontrava dissenso ogni risposta al reato diversa dalla retribuzione”.

Andrebbe cambiata la Costituzione?

“No, perché la Costituzione - secondo la quale le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità - non cita mai il carcere inteso come “pena”“. Però prevede una forma motivata di restrizione della libertà personale. “Non significa necessariamente far soffrire la gente. Ci possono essere forme diverse: un carcere come quelli norvegesi in Italia sarebbe chiamato con sarcasmo albergo di lusso. Però lì la recidiva è più bassa che da noi, dove, peraltro, quando il carcere è meno “carcere” - mi riferisco a Bollate - la recidiva è meno frequente”.

Lei in cosa crede?

“Nelle misure alternative, nella cosiddetta rieducazione (la chiamerei reintegrazione), molto anche nella giustizia riparativa”. In cosa consiste? “In un percorso attraverso il quale il responsabile del reato e la vittima, assistiti da professionisti particolarmente preparati sul tema, arrivino ad un incontro che ripari la vittima dal male subito e renda il responsabile consapevole del male fatto, senza essere travolto dal senso di colpa”.