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di Iuri Maria Prado

linkiesta.it, 31 maggio 2022

La definizione non è esagerata: la privazione della libertà è una delle cose più crudeli che possano essere inflitte all’uomo. Chi lo sottovaluta (o, peggio, considera la prigione una soluzione ottimale) dovrebbe pensarci due volte.

Quanto vedete un Dio-Patria-Galera (ma Manipulite-Onestà-Galera è lo stesso) che alza il sopracciglio perché sente dire che il carcere è una tortura, domandategli questo: “Prova a immaginare che qualcuno più forte di te, esercitando un potere inoppugnabile, sequestri la tua libertà e ti impedisca di fare una per una tutte le cose che quotidianamente integrano le ore della tua vita, che magari giudichi malandata. Prova a immaginare che in forza di quel potere ti si impedisca di vedere la moglie, il marito, i figli, gli amici. Che in forza di quel potere ti si imponga la solitudine che non desideri o una compagnia coatta. Che a causa di quell’imposizione tu non possa leggere quel che vuoi, ascoltare la musica che vuoi, mangiare quel che vuoi. Che tu non possa camminare, lavorare, studiare, preparare la colazione a tuo figlio, festeggiare il suo compleanno, far visita a un parente moribondo, partecipare al funerale di una persona a te cara, insomma che tu non possa fare nulla di tutto ciò che consideri un’acquisizione irrevocabile della tua esistenza. E prova a immaginare che questa somma di privazioni si squaderni nei luoghi in cui sei costretto, tanto angusti e malsani che perfino per il bestiame sarebbe troppo, e dove sei esposto a ogni genere di sopraffazione, di violenza, di degradazione, per soprammercato nell’indifferenza, quando non nel compiacimento, della comunità di cui facevi parte. Ebbene, come considereresti questo trattamento ai tuoi danni, questo accanirsi di un potere più forte di te sulla tua vita sino a svuotarla di tutto, come lo considereresti se non per quel che è, e cioè tortura? E dunque: che altro è se non questo, il carcere? Non è forse fatto delle stesse cose, delle stesse angherie, della stessa brutalità, della stessa ignominia che tu, se toccasse a te, chiameresti tortura?”.

Se l’interrogato in tal modo rispondesse che basta non delinquere per non subire quel trattamento, non varrebbe la pena di obiettare che nemmeno al delinquente più incallito sarebbe legittimo infliggerlo. Basterebbe ricordargli che uno su due, in carcere, è innocente quanto lui. Non gli si chiede - sarebbe troppo - di immedesimarsi nel colpevole. Gli si chiede di mettersi nei panni dell’innocente.