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di Iuri Maria Prado

L’Unità, 9 settembre 2023

A ben guardare la giustizia di piazza non è affatto alternativa al carcere, il quale semmai ne costituisce una forma regolata. È certamente un segno di degrado, un elemento di inciviltà, ma che nel carcere non trova una negatoria bensì una specie di liberatoria patentata. E quando non è soltanto ingiusto e inefficace (ma basterebbe), il carcere è anche illegale: e non c’è dunque più nemmeno la legge a farlo diverso dalla violenza di strada. Ci si può pensare, quando si invoca galera e galera e galera?

Leggo la notizia del pestaggio romano da cui è per caso uscito vivo uno scippatore, un giovane che aveva rapinato una vecchietta ed è stato accerchiato e appunto quasi ammazzato da alcuni abitanti che avevano assistito al fatto. E la leggo a poche ore da un fatto cui invece ho assistito io, la sera stessa, nel vagone della metropolitana milanese in cui stavo con mia figlia e sua madre. Ero andato a prenderle (tornavano da Roma) perché non mi piaceva l’idea che girassero sole a quell’ora, ormai purtroppo pericolosa nei pressi della Stazione Centrale. Fatte un paio di fermate, sale un gruppo di ragazzini (tra i quindici e i diciassette anni, direi).

Io non mi accorgo di quanto appaiano malintenzionati (smanettavo col cellulare), né che la preda fosse la madre di mia figlia, la quale invece se ne accorge e viene a sedersi accanto a me, che stavo dirimpetto. A quel punto il gruppo cambia obiettivo, prende di mira una signora anziana, attende la fermata del treno e l’apertura delle porte: uno afferra la collana della signora, gliela strappa dal collo e fugge con gli altri. L’anziana è scossa, il rapinatore le ha anche fatto male al viso. Nel residuo del viaggio e tornando a casa pensavo al ragazzo responsabile di quella brutta violenza. Pensavo al problema che quel ragazzo costituisce per la società in cui vive e vivrà, che è un problema non meno grave e più duraturo rispetto a quello rappresentato dal reato che ha commesso. Pensavo che ci sono tre modi per risolvere il problema.

Il primo: lo si ammazza. Il secondo: lo si tiene in carcere per tutta la vita. Il terzo: lo si tiene in carcere il tanto che basta a farlo uscire peggio di prima, più pericoloso di prima, più perduto di prima. I primi due modi (ammazzarlo o dargli l’ergastolo) sono in effetti risolutivi, ma forse non esattamente appropriati. Il terzo (rieducarlo a suon di carcere), è quello cui si ricorre senza capire che se pure risolvesse il problema immediato (l’illecito che ha commesso: e non lo risolve) non risolverebbe l’altro, che per il legislatore dovrebbe essere il principale: e cioè il fatto che puoi girarla come vuoi, ma la società avrà comunque a che fare con questa persona.

Politica, “governo”, è esattamente questo: ricercare e dare soluzioni ai problemi, e il problema non è solo l’atto illecito e violento del ragazzo, è anche la sua vita da qui in poi, che per la società diventa un problema se la società stessa (tolta l’idea di ammazzarlo o di tenerlo in carcere tutta la vita) non trova di meglio che tenerlo in carcere per un po’ nell’attesa che, entratovi balordo, ne esca criminale provetto. L’altro ieri, al Quarticciolo di Roma, la “società”, cioè la piazza del linciaggio, si era incaricata di risolvere il problema alla prima maniera, e in effetti se li levi di mezzo non avrai quello di cui parlavo, il problema di avere in società uno che ha commesso un reato: perché se non lo ammazzi, non c’è santi, in società ci torna.

E, siccome è giovane, è destinato a starci parecchio. Dunque che cosa vogliamo fare? Provare a cavante del buono non si dice per lui (anche se forse ci si potrebbe pensare), ma almeno per la società che dovrà averci a che fare, lavorando affinché sia meno pericoloso e magari utile, incluso anziché reietto nella società che comunque lo avrà di mezzo, oppure fare come si fa, e cioè affidarne la sorte all’esperimento carcerario che non protegge né lui (e vabbè, facciamo finta che non importi) né la società cui farà ritorno?

Il tentato linciaggio del giovane rapinatore a Roma non è molto diverso, quanto a efficacia rieducativa e civiltà del trattamento, rispetto alla media cura carceraria: con la differenza che questa ha pretese di legalità e in modo ipocrita è apprestata in nome del popolo italiano al riparo dalle telecamere.

A ben guardare la giustizia di piazza non è affatto alternativa al carcere, il quale semmai ne costituisce una forma regolata. È certamente un segno di degrado, un elemento di inciviltà, ma che nel carcere non trova una negatoria bensì una specie di liberatoria patentata. E quando non è soltanto ingiusto e inefficace (ma basterebbe), il carcere è anche illegale: e non c’è dunque più nemmeno la legge a farlo diverso dalla violenza di strada. Ci si può pensare, quando si invoca galera e galera e galera?