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di Iuri Maria Prado

Il Riformista, 16 aprile 2024

Si potrebbe pensare alla pubblicazione su un’intera pagina, e a spese del responsabile, del provvedimento che riconosce l’illiceità del comportamento dell’autore dell’articolo. È davvero difficile capire come la sacrosanta istanza garantista possa essere chiamata in causa per giustificare tre o quattro anni di galera sulla gobba di un giornalista magari anche disinvolto, magari anche peggio, ma dopotutto responsabile di un delitto che dovrebbe essere sanzionato senza ricorrere a quella strumentazione forcaiola. Sorprende, dunque, che alcuni, pur appartenenti alla schiatta che si intesta quell’ineccepibile missione di garanzia per i diritti individuali, snocciolino senza perplessità ipotesi di riforma ed emendamenti articolati su quel presupposto di giustizia piombata.

Attenzione. Non c’è nessun dubbio sul fatto che una notizia inveritiera possa pregiudicare in modo anche gravissimo l’esistenza altrui, e non c’è dubbio che la cosa è tanto più detestabile quando la pubblicazione è fatta da chi sa di scrivere contro il vero o, peggio, essendo consapevole dell’innocenza di un cittadino di cui indica o lascia intendere una responsabilità che invece non c’è. Ma retribuire quell’odioso malcostume, per quanto possa elevarsi a livello di un pericoloso delitto, con una pena detentiva - oltretutto di una tale gravità - non risponde a serie esigenze di correzione del fenomeno. Anzi, se nel nostro sistema dovesse impiantarsi questo presidio ulteriormente carcerario avremmo semplicemente una moltiplicazione della giustizia inutilmente offensiva di cui giustamente si lamenta l’approccio garantista.

E nessuno, appunto, vorrà sostenere che per i casi pur gravi di lesione dell’altrui reputazione e per le campagne di discredito ai danni dei disgraziati che finiscono nel tritacarne non esistano rimedi altrettanto o ben più efficaci rispetto al carcere. A parte le soluzioni risarcitorie, infatti, insomma a parte i soldi che il responsabile di quei reati può essere condannato a corrispondere alla vittima, un cospicuo bouquet di soluzioni alternative potrebbe essere messo in campo per ristabilire la verità compromessa dalle cosiddette fake news o dalle infondate attribuzioni diffuse per il tramite di questo o quel mezzo di informazione.

Si pensi alla sporadicità, e in ogni caso alla usuale poca visibilità, della pubblicazione dei provvedimenti che abbiano riconosciuto l’infondatezza di una notizia e, dunque, il pregiudizio che ne ha patito la vittima. Si provi a pensare a che cosa succederebbe se fosse disposta la pubblicazione su un’intera pagina, e magari in prima pagina, e per più giorni, e a spese del responsabile, del provvedimento che riconosce l’illiceità del comportamento del giornalista e/o della testata. C’è da stare certi che la prossima volta gli passa la voglia.

Con un’efficacia dissuasiva, se possibile, anche più forte rispetto alla prospettiva del carcere e, soprattutto, con un effetto di tutela per la vittima a dir poco incomparabile. Perché la vittima dell’aggressione giornalistica trova assai poco ristoro nel fatto che il giornalista sia messo in galera, mentre ottiene qualcosa di molto più serio se vede sbattuta in faccia al pubblico (non nei trafiletti) la propria innocenza, il ripristino della verità e il profilo svergognato di chi ingiustamente l’ha messo sulla graticola.

Insomma i modi ci sarebbero, e su questo diverso fronte riparatorio davvero si potrebbe esercitare la fantasia di un legislatore realmente preoccupato di ricondurre a civiltà un sistema dell’informazione, e dei rapporti tra la stampa e l’amministrazione della giustizia, indiscutibilmente sguaiato e pericoloso. Ma la luce grigliata del carcere negli occhi di un giornalista pur mascalzone è un rimedio pessimo, che non ripugna meno del delitto che si vorrebbe punire.