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di Massimo Lensi

thedotcultura.it, 27 agosto 2024

Un penitenziario che incarcera per ottenere un guadagno. La politica divide con metodo gli schieramenti: da una parte i pragmatici, quelli che vogliono cambiare le cose, dall’altra gli inutili, che, all’opposto, giocano sulla falsariga della felice utopia. Del primo gruppo fanno parte settori della maggioranza e anche alcune opposizioni; il secondo gruppo è, invece, appannaggio dei duri & puri, che preferiscono l’amor proprio all’obiettivo da raggiungere con una mediazione. Una sorta di tanto peggio tanto meglio costruito su granitiche certezze. Le politiche penitenziarie hanno la proprietà di evidenziare con chiarezza i due gruppi, dando la possibilità di osservare, a distanza, le varie proposte in campo: a volte pessime ma dotate di concretezza, altre volte perfette ma impossibili da realizzare. La politica è sempre mediazione.

Da quando il Governo Meloni ha giurato di fronte al Presidente Mattarella, è stato subito abbastanza chiaro che uno degli obiettivi governativi per riformare il sistema della penalità italiana sarebbe stato privatizzare alcuni settori dell’esecuzione penale. Le dimore sociali del ministro di Giustizia Nordio e le comunità educanti del sottosegretario Ostellari attestano che un ragionamento è in corso. Del resto, le condizioni inumane e in continuo peggioramento del sistema penitenziario, il tasso di affollamento negli istituti e il declassamento dell’articolo 27 della Costituzione già da tempo motiverebbero ad agire. Un cammino certo lungo e imprevedibile, di cui ancora non c’è un benché minimo progetto di fattibilità, solo intuizioni e un pugnetto di tentativi laterali. Qualche giorno fa, il quotidiano la Repubblica ha concentrato l’attenzione su questo tema, dando spazio a qualche interessante riflessione: pragmatica e attendista quella dell’ex Garante nazionale dei detenuti Palma, critica quella di Gennarino De Fazio del sindacato di Polizia Penitenziaria Uilpa. È ancora tutto sulla carta, ma evidentemente s’inizia a discuterne (in L. Milella, “Dalle celle alle dimore sociali o coop”, La Repubblica, 19 agosto 2024).

La prigione privata è un penitenziario che incarcera le persone che hanno commesso un reato, per ottenerne un guadagno. Più sono i reclusi, più la struttura guadagna. Gli Stati Uniti sono il paese il leader di questo business, insieme a Australia e Inghilterra. Non è qui il caso di entrare diffusamente sulla teoria del reato negli Usa, è tuttavia utile ricordare che, in questo periodo, il sistema penale di quel Paese è concentrato soprattutto su profili di policy reform e advocacy, con il fine di mettere in atto azioni in grado di trasformare gli interessi della popolazione o dei cittadini in diritti. Il sistema di giustizia penale statunitense presenta, infatti, problemi strutturali molto gravi: dall’incarcerazione di massa alla pena di morte, dalla disparità razziale nel sentencing alla war on drugs, dal controllo delle armi all’uso della forza letale da parte della polizia.

Tornando alla ragion d’essere del carcere privato, cioè il profitto, prendo ad esempio i termovalorizzatori. Per guadagnare questi impianti hanno bisogno di grandi quantità di rifiuti solidi urbani. Il carcere privato funziona allo stesso modo, solo che al posto dei rifiuti solidi urbani “brucia” (uso un tropo, ovviamente) rifiuti umani, i “marginali” e gli scartati della società. Negli Usa, ventotto stati hanno reclusi in prigioni private. Secondo l’organizzazione non governativa Sentencing Project, che si occupa dei diritti delle persone in carcere, nel 2022 quasi 91mila detenuti sul totale di 1,2 milioni erano in prigioni private. Non pochi.

CoreCivic e Geo Group sono le due principali società americane che controllano il mercato della detenzione privata. Esse non si occupano solo della gestione diretta delle prigioni, ma anche dei fornitori, dei programmi di riabilitazione (peraltro solo apparenti), e di tante altre cosette tra cui la proprietà degli edifici in cui hanno sede gli uffici governativi. Negli ultimi anni le due società hanno firmato nuovi contratti di appalto e, con Trump al governo, le azioni della CoreCivic e Geo Group sono aumentate rispettivamente del 43% e del 21%. Un mercato in espansione. Business is business.

Tornando in Italia, adesso dobbiamo porci una domanda: la privatizzazione delle carceri, o di alcuni settori dell’esecuzione penale, è praticabile? Il nostro ordinamento ha sempre escluso una possibile privatizzazione delle carceri. A oggi, però, le condizioni degli istituti penitenziari italiani sono degradate a tal punto da aver rimescolato le priorità dell’esecutivo, anche e soprattutto per paura di condanne internazionali al nostro Paese. Le nostre carceri, infatti, da molti anni rappresentano la vergogna, anche a livello internazionale, della giustizia italiana: dall’essere luoghi di rieducazione sono diventati dei veri e propri luoghi di emarginazione dove, a farla da padrone, è il tasso di affollamento, che ha come immediata e inevitabile conseguenza l’affievolimento dei diritti fondamentali dei detenuti. Il problema dunque si pone nella concretezza di dare all’esecuzione di pena un significato attinente ai principi costituzionali e del diritto internazionale relativo alla tutela dei diritti della persona.

L’articolo 27 della Costituzione recita chiaramente che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Il carcere, dunque, non deve solo promuovere attività capaci di rieducare i detenuti preparandoli al loro reinserimento nella società, prospettiva questa da libro dei sogni, ma deve soprattutto rispettare e tutelare i diritti fondamentali. La drammatica stagione dei suicidi in carcere e la situazione in cui versano le carceri italiane palesano ormai con chiarezza che l’articolo 27 della Costituzione è, di fatto, lettera morta: il sovraffollamento degli istituti penitenziari è sistemico, l’incapacità di assicurare la realizzazione di attività rieducative è ormai una costante e le condizioni igieniche in cui molti detenuti devono vivere sono non di rado ributtanti.

Un effetto naturale dovuto a difficoltà oggettive oppure si può iniziare a intravedere una regia, seppur inconsapevole, per dirigere la macchina della penalità verso la scelta della carcerazione privata? Difficile al momento dare una risposta. Potremmo solo aggiungere che, nonostante i diversi tentativi legislativi e i richiami dalla Corte EDU, l’Italia non è ancora riuscita a risolvere queste gravissime problematiche. Solo una via sembra apparire allora sulla carta percorribile: la privatizzazione degli istituti penitenziari. Si tratta di una soluzione che, come un diavoletto tentatore, si fa di mese in mese sempre più tangibile.

Gli ostacoli da superare sono, in effetti, molti e di difficile soluzione. Se da una parte con la privatizzazione tout court dell’esecuzione penale si verrebbe a ledere il principio di sovranità dello Stato, dall’altra parte si potrebbe affermare che l’amministrazione della giustizia in fase di esecuzione non funziona per motivi anche economici. Il cavallo di Troia è proprio in questa constatazione. Ed è un cavallo, per fortuna, zoppo. Per questa ragione, nel nostro Paese, se da un lato si riconosce che una gestione delle strutture penitenziarie assistita da capitali privati consentirebbe alla sovranità statale di esercitare nella forma più economica, efficace ed efficiente possibile, l’amministrazione della giustizia, dall’altro la prassi dell’esternalizzazione in materia carceraria sarebbe molto limitata e circoscritta prevalentemente alla gestione di alcuni servizi strumentali, come ad esempio, il vettovagliamento dei detenuti affidato ad aziende private alle quali il servizio è appaltato.

Proseguiamo l’analisi. Il decreto legge sulle liberalizzazioni del 24 gennaio 2012 ha però inserito lo strumento del Project financing per la costruzione di nuovi istituti penitenziari. In questi mesi se ne parla di nuovo per l’ipotesi dei progetti di edilizia carceraria che il Governo Meloni avrebbe intenzione di avviare, in nome della battaglia di civiltà contro il tasso di affollamento dei nostri istituti (che ha raggiunto al 31 marzo di quest’anno, secondo l’associazione Antigone, la media nazionale del 119,3%). In tempi di populismo penale, tuttavia, la “buona” intenzione si scontra anche con i progetti altrettanto evidenti di mass-incarceration, a partire dai nuovi e più svariati reati introdotti da due anni a questa parte.

Il Project financing carcerario realizzerebbe, del resto, un dispositivo economico in grado di consentire la partecipazione di grandi aziende, imprese private, fondi finanziari o banche alla progettazione, costruzione e gestione di nuove carceri. Lo Stato, in altri termini, permetterebbe all’azienda, che ha partecipato alla progettazione e costruzione, di trarre i propri profitti dalla gestione della struttura in tutti i suoi servizi e mansioni, eccetto quella custodiale, a causa del principio di sovranità statale. Quindi, benché in Italia il business carcerario non abbia ancora una legislazione adeguata per essere praticato integralmente, non possiamo escludere del tutto la possibilità che il nostro Paese segua, alla fine, le orme del sentencing americano.

La domanda più importante da porsi però, sarebbe un’altra: la privatizzazione teoricamente in corso di alcuni settori dell’esecuzione penale rappresenta una reale soluzione ai problemi dei nostri istituti penitenziari, oppure è soltanto modo come un altro per aggirare il vero problema, e cioè la necessità di una seria riforma dei principi punitivi dello Stato e dell’esecuzione penale nel nostro Paese? In Italia, lo sappiamo, rinviare è sempre meglio che affrontare di petto il problema.