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di Luigi Ferrarella

Corriere della Sera, 9 ottobre 2023

Dal latinorum bisognerebbe magari ricordarsi anche un’altra formuletta, “sine spe et sine metu”, e cioè la certezza che il magistrato da cui attendono risposta non coltivi speranze di vantaggi né tema ripercussioni dalla decisione che sta prendendo.

La seconda domanda. Nessuno se ne sta preoccupando, eppure è quella cruciale non dal punto di vista di magistrati e politici, ma dei cittadini. Perché la disamina della fondatezza giuridica dell’ordinanza della giudice catanese Apostolico, le riflessioni sull’opportunità per le toghe di surfare sui social e partecipare a manifestazioni, gli interrogativi sui fornitori ministeriali del magma mediatico riversabile sulla toga o sul politico o sul giornalista sgraditi, sono dita rispetto alla luna vera, che si vede solo se si uniscono tutti i puntini di questa stagione di giudici messi dal ministro della Giustizia sotto procedimento disciplinare per aver motivato gli arresti domiciliari di un russo poi evaso prima dell’estradizione.

Di pm preventivamente diffidati dal governo a non azzardarsi a verificare la segretezza o meno del documento ministeriale passato da un sottosegretario al coinquilino compagno di partito, e da questi utilizzato per attaccare in Parlamento l’opposizione. Di magistrati tacciati da Palazzo Chigi di aver “scelto di svolgere un ruolo attivo di opposizione” quando una ministra fa finta di non sapere di essere indagata da un anno, o a una Procura tocca verificare la denuncia di una ragazza contro il figlio del presidente del Senato. Di giudici accusati di lesa maestà imprenditorial-sindacale perché, contestando il caporalato in salari da fame contrastanti con l’articolo 36 della Costituzione pur se contrattualmente sottoscritti, inducono le aziende commissariate a sistemare 11mila lavoratori e restituire all’Erario centinaia di milioni di euro. Di caccia all’uomo togato dopo ogni femminicidio, benché a cadavere ancora in strada nemmeno si sappia se e quali elementi di conoscenza quel magistrato avesse negli atti. E di ostruzionismi a magistrati rei di passate decisioni sgradite al partito dei consiglieri Csm che ora gli fanno la guerra, così che tutti imparino quanto le loro carriere future possano ormai dichiaratamente essere scrutinate alla luce del favore o sfavore politico del loro lavoro.

L’adagio per cui “il magistrato come la moglie di Cesare dovrebbe non solo essere ma anche apparire imparziale” viene brandito contro la giudice Apostolico che 5 anni fa non trattava procedimenti di immigrazione, ma curiosamente non contro l’ex senatore forzista Enrico Aimi che l’ha già pubblicamente condannata pur essendo il presidente della Commissione Csm che dovrá giudicarne l’incompatibilità ambientale invocata da tutta la destra. Ecco perché dal latinorum bisognerebbe magari ricordarsi anche un’altra formuletta, “sine spe et sine metu”, precondizione della fiducia dei cittadini sottoposti a giudizio o in cerca di tutela: e cioè la certezza che il magistrato da cui attendono risposta non coltivi speranze di vantaggi né tema ripercussioni dalla decisione che sta prendendo nell’esercizio della giurisdizione.

Ma se nella testa del giudice, accanto alla prima domanda che dovrebbe essere anche l’unica (chi ha ragione in questo caso in base alle leggi?), inizia a ronzare pure una seconda domanda (se prendo la decisione verso cui mi sto orientando per legge, mi accadrà qualcosa di bello o di brutto? Mi troverò la vita setacciata dai cassetti del ministro e dai suoi media fiancheggiatori? Sarò favorito o danneggiato nei contesti istituzionali che avranno voce in capitolo sulla mia vita professionale?), allora la sua indipendenza è già intaccata, e il conformismo alle decisioni più comode già incoraggiato.

E accadrà che quando un magistrato dovrà decidere se un poliziotto abbia picchiato un fermato o ne sia calunniato; se l’imperizia di un medico abbia concorso alla morte del paziente o i familiari denuncianti siano solo accecati dal dolore; se il sospettato di un fatto di cronaca eclatante debba o no essere messo intanto nel carcere invocato dalla piazza urlante; se si debba sequestrare una fabbrica che inquina una comunità, oppure evitare l’errore di buttare per strada gli operai; se una lancinante questione di bioetica legittimi nuove dinamiche familiari; se di fronte a una segnalazione di abusi sessuali in famiglia debba precipitarsi a togliere la figlia al padre (col rischio poi di vedersi addebitare il suicidio di un innocente in carcere), o essere impermeabile alla strumentalità di una denuncia frutto di conflittualità familiare (col rischio invece di sentirsi rimproverare di aver lasciato la figlia in mano all’orco vero): ecco, in tutti questi casi, d’ora in avanti il cittadino avrà di fronte a sé un magistrato che si sta facendo “la seconda domanda”. E il fatto che questa seconda domanda inevitabilmente finisca per sfavorire la parte più debole, qualunque sia nel contenzioso dalla cui soluzione il magistrato abbia da temere contraccolpi o attendersi gratificazioni, smette di essere un affare tra magistrati e politici. E comincia a fare paura a ogni a cittadino.