di Tonucci & Partners*
huffingtonpost.it, 9 febbraio 2023
Nonostante la vasta applicazione, non vi è prova alcuna che la norma abbia sortito alcun concreto effetto. Recenti vicende di cronaca hanno acceso i riflettori sul cosiddetto “carcere duro” regolato dall’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario (o.p.). Si discute, in particolare, sull’efficacia dello stesso e sull’ipotesi di una sua abolizione. Prima di giungere a qualunque considerazione sull’argomento, è opportuno ripercorrerne in sintesi la genesi e comprendere di cosa si tratti in concreto.
L’articolo 41 bis o.p. venne introdotto, con legge numero 663/1986, per fronteggiare una situazione emergenziale legata a episodi di gravi rivolte verificatesi in alcune carceri italiane. Esso prevedeva, quindi, che in tali casi eccezionali o in altre gravi situazioni di emergenza il Ministro della Giustizia potesse disporre la sospensione delle ordinarie regole del trattamento penitenziario, per il tempo strettamente necessario al ripristino dell’ordine e della sicurezza negli istituti carcerari.
Nel 1992, dopo le stragi di Capaci e Via D’Amelio, all’unico comma di cui constava l’articolo 41 bis o.p. venne aggiunto un secondo comma che assegnava al ministro della Giustizia il potere, con decreto motivato, di sospendere le regole del trattamento carcerario ordinario, nei confronti di detenuti indagati, imputati o condannati, per particolari categorie di reati elencati dall’articolo 4 bis, comma 1, dello stesso o.p. (cosiddetti reati “ostativi” di “prima fascia” - ovverosia reati per i quali non è consentito l’accesso ai benefici penitenziari, né alla liberazione condizionale). In altri termini, nella sua originaria concezione, il “carcere duro” era destinato sostanzialmente solo a soggetti ritenuti legati ad organizzazioni criminali terroristiche o mafiose.
Va aggiunto che la disposizione in esame - per la sua natura “emergenziale” - prevedeva una data di scadenza di tre anni dalla sua entrata in vigore. Tuttavia, il Legislatore nazionale intervenne prorogando l’efficacia della norma per ben tre volte, sin quando la legge numero 279/2002 rese definitiva la disciplina relativa al cosiddetto “carcere duro”.
I successivi interventi normativi, (ad esempio la legge numero 94/2009), hanno ampliato notevolmente la platea dei potenziali destinatari del regime carcerario di massimo rigore, in funzione anche dell’ampliamento del novero dei reati di “prima fascia” compresi nell’articolo 4 bis o.p. In concreto, l’attuale formulazione dell’articolo 41 bis o.p., prevede che il ministro della Giustizia possa, con decreto motivato, in fase di prima applicazione nei confronti di un detenuto, stabilire che per i successivi quattro anni questi subisca una serie di incisive limitazioni, per esempio, con riferimento alla facoltà di intrattenere colloqui in presenza ovvero telefonici con i propri familiari (sempre sottoposti a registrazione audiovisiva), al controllo della corrispondenza in entrata e in uscita, alla socialità all’interno dell’istituto carcerario, al contenuto di pacchi contenenti vestiario e/o cibo, ecc.
Il carcere duro può, inoltre, alla scadenza del quadriennio, essere prorogato con decreto motivato del ministro per due anni. Scopo del regime carcerario sarebbe, dunque, quello di impedire a detenuti per reati ritenuti di particolare allarme sociale di mantenere contatti con l’esterno, al fine di prevenire la commissione di ulteriori fatti criminosi. Va, però, osservato come tale scopo non possa essere realizzato sottoponendo detenuti, i cui diritti sono già affievoliti proprio in funzione dello stato restrittivo, a trattamenti incongrui rispetto alle finalità perseguite o che siano equiparabili alla tortura o si risolvano in trattamenti inumani e degradanti. Nella realtà, numerosi sono i casi di detenuti in stato di custodia cautelare e nei confronti dei quali non è intervenuta condanna, sottoposti al regime del carcere duro; altrettanto numerosi i casi di detenuti sottoposti a tale regime da diversi decenni, senza soluzione di continuità, sul presupposto che gli stessi siano pericolosi per non avere manifestato condotte positive da cui desumere una resipiscenza (id est: condotte collaborative con la giustizia) e, dunque, sul presupposto della presunzione della immutata persistenza di una speciale pericolosità, pur in assenza di concreti elementi da cui desumere l’attualità di tale pericolosità.
È allora lecito chiedersi come possa obiettivamente ritenersi efficace un regime carcerario di così grande rigore, fondato su elementi sostanzialmente presuntivi e, in quanto tali, quasi invariabilmente insuperabili e, astrattamente, ripetibile all’infinito. Non solo. Nonostante la vasta applicazione, non vi è prova alcuna che la norma abbia sortito alcun concreto effetto, laddove - all’opposto - non vi è dubbio che il regime carcerario che essa impone finisca per risolversi nell’irrogazione di una sanzione nella sanzione.
*Studio legale e tributario internazionale