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di Giovanni Fiandaca

Il Foglio, 26 ottobre 2024

L’indagine che ha coinvolto i due ex magistrati dimostra che la collaborazione fra una commissione parlamentare e una procura altro non è che un intreccio pericoloso fra politica e magistratura. La ricerca della verità su Borsellino non passa da lì. Le indagini della procura di Caltanissetta sul favoreggiamento alla mafia mediante il presunto insabbiamento di un procedimento su mafia e appalti da parte dei due noti ex magistrati Natoli e Pignatone, come è stato rilevato, sollevano questioni problematiche di elevata complessità. Ma queste indagini hanno continuato a suscitare attenzione politico-mediatica, come si desume dalle cronache di questi giorni, per le vivaci polemiche e le accese contrapposizioni politiche sorte intorno al caso Scarpinato, ex procuratore generale di Palermo e attuale senatore pentastellato, accusato di avere preventivamente concordato con l’ex collega Natoli i contenuti di una successiva audizione di quest’ultimo alla Commissione nazionale antimafia, della quale lo stesso Scarpinato fa parte. Questa ennesima e recente vicenda politicamente conflittuale è stata finora prevalentemente affrontata nei termini fuorvianti e riduttivi di un forte attacco a Scarpinato da parte della maggioranza di destra o, al contrario, di una difesa a tutto campo da parte dell’opposizione, come se l’unico aspetto rilevante concerna la liceità o illiceità, opportunità o inopportunità dell’interlocuzione con Natoli avuta dall’ex magistrato oggi senatore. A ben vedere, i più rilevanti profili problematici sono invece di natura sistemica, e hanno quindi una portata ben più generale. A nostro avviso vengono, infatti, in rilievo importanti aspetti connessi alla logica di funzionamento e alle modalità operative della Commissione parlamentare antimafia considerate anche in rapporto all’attività di indagine della magistratura, specie nei casi in cui l’organo parlamentare e gli organi giudiziari finiscono con l’occuparsi contemporaneamente dei medesimi fatti. È su questo piano sistemico di connessioni funzionali che occorre, verosimilmente, rinnovare e approfondire la riflessione.

Cominciamo col richiamare i compiti della Commissione antimafia, così come indicati dall’ultima legge istitutiva n. 22/2023. In sintesi, prescindendo dalla specificazione forse troppo dettagliata e sostanzialmente ripetitiva contenuta in tale legge, gli obiettivi caratterizzanti assegnati alla Commissione sono così riassumibili: acquisire elementi di conoscenza il più ampi possibili sul fenomeno delle mafie e delle altre associazioni criminali; verificare l’attuazione e l’adeguatezza dei molteplici strumenti ordinamentali finalizzati a contrastare l’associazionismo criminale; proporre iniziative a carattere normativo e/o amministrativo volte a potenziare l’azione di contrasto.

Da questa attribuzione legislativa di compiti principali si desume che la competenza precipua della Commissione parlamentare ha in ogni caso a oggetto le mafie come fenomeno criminale generale e, come conseguente finalità da perseguire, il miglioramento delle conoscenze in vista appunto di un progressivo rafforzamento e affinamento delle strategie di intervento. Ciò in coerenza del resto con l’art. 82 della Costituzione, che riconosce alle Camere il potere di compiere inchieste su “materie di pubblico interesse”, in cui indubbiamente rientra la criminalità associata. Da questo punto di vista, l’attività parlamentare di inchiesta si differenzia in linea di principio dalle indagini giudiziarie dal momento che, a differenza di queste ultime, non ha per scopo di accertare reati e dunque di ricostruire probatoriamente specifici episodi criminosi (quale che ne sia il livello di gravità).

Se così è, ci si può allora problematicamente chiedere se assolva davvero le sue tipiche funzioni politico-istituzionali una Commissione parlamentare che si attribuisca il compito di indagare vicende di mafia specifiche per quanto gravissime, con l’obiettivo pur apprezzabile di fare maggiore verità rispetto a quanto sia riuscita a fare l’autorità giudiziaria competente, eventualmente collaborando a questo fine con una specifica procura in un gioco interattivo che rischia però di sovrapporre e confondere competenze che dovrebbero rimanere in teoria distinte.

Si allude, com’è facile intuire, alla scelta politica dell’attuale Commissione antimafia di assumere a oggetto privilegiato di inchiesta la strage Borsellino e in particolare la pista del rapporto mafia-appalti, instaurando una relazione di stretta collaborazione con la procura di Caltanissetta, la quale ritiene di poter ricavare dalle audizioni parlamentari input investigativi da valorizzare con immediatezza (così è nata l’indagine sull’ipotizzato favoreggiamento di Natoli e Pignatone) e, a sua volta, periodicamente inoltra alla presidente Colosimo documentazione relativa agli accertamenti giudiziari in corso (da qui ha tratto origine il caso Scarpinato, dopo che il quotidiano La Verità ha divulgato la notizia dell’invio da Caltanissetta alla presidenza dell’Antimafia degli atti relativi alle conversazioni intercettate tra Scarpinato e Natoli). Questa circuitazione, a ben guardare, rischia di produrre effetti perversi o comunque disfunzionali.

A parte gli aspetti assai problematici dell’ipotesi di favoreggiamento tardivamente congetturata a carico di due noti e stimati ex magistrati come Natoli e Pignatone, va infatti evidenziata una non secondaria ragione di fondo che può in realtà rendere, alla fine, scarsamente produttiva la contestuale collaborazione dell’organo parlamentare con la magistratura inquirente in vista della acquisizione di una maggiore verità su eventi drammatici e gravissimi, bisognosi di ulteriori chiarimenti anche rispetto alle possibili causali. La ragione è questa: sembra poco realistico attendersi che la sede parlamentare risulti più idonea a fungere da luogo di approfondimento ricostruttivo se quanti hanno finora taciuto in sede giudiziaria per il timore di eventuali imputazioni continuano a dover pur sempre temere, qualora finalmente rivelino quel che sanno, l’incombere della spada di Damocle di una colpevolizzazione punitiva in tribunale. Sarebbe, forse, più realistico attendersi una maggiore verità se, come avviene nell’ambito delle Commissioni verità e giustizia a carattere riconciliativo, l’accertamento dei fatti avvenisse senza possibili conseguenze penali. È plausibile adottare anche nel nostro paese modelli di accertamento privi di seguiti processuali, rinunciando al bisogno emotivo di punire e considerando soluzione adeguata a rispondere anche alle aspettative delle vittime un dibattito storico-politico e un confronto pubblico volti a far maturare una più approfondita presa di coscienza e una maggiore responsabilizzazione collettiva rispetto a quanto accaduto? Non sembra azzardato sollevare un simile interrogativo.

Non a caso, il discutibile intreccio collaborativo tra Commissione antimafia e procura nissena è anche all’origine del caso Scarpinato sopra accennato. La vera questione a nostro giudizio non è se sia opportuno che un ex magistrato si occupi, divenuto componente della Commissione antimafia, di vicende indagate nel precedente ruolo continuando a difendere tesi che non hanno ricevuto i necessari riscontri processuali. Piuttosto, può non apparire consono alla nuova funzione rivestita l’ostinato mantenimento di una mentalità e uno stile di comportamento di tipo giudiziario, con la connessa pretesa di far valere certe tesi per il solo fatto di averle sostenute da magistrato. Insomma, si tratta di cambiare atteggiamento e adeguarsi ai nuovi compiti, e questo cambiamento dipende non ultimo dalla capacità e disponibilità personale a compiere il salto qualitativo dal ruolo giudiziario al ruolo politico.

Non sembra, pertanto, da condividere la proposta vagheggiata dalla presidente Colosimo di introdurre una previsione normativa che sancisca qualcosa di simile a un obbligo di astensione dalla trattazione di temi rispetto ai quali qualche componente della Commissione possa trovarsi in “conflitto di interessi”. Che vuol dire conflitto di interessi, chi lo stabilisce e sulla base di quali criteri? In realtà, non essendo i commissari antimafia giudici che incriminano e condannano, per contrastare un eventuale eccesso di prevenzione di giudizio di qualche commissario possono ben bastare il confronto dialettico e l’efficacia argomentativa.

Ancora, la vicenda Scarpinato dimostra come un cortocircuito quale quello tra procura nissena e Commissione antimafia possa dar luogo a palesi e gravi violazioni della legalità sul piano procedimentale, essendo contrario alle garanzie costituzionali l’intercettazione di un senatore senza la preventiva autorizzazione parlamentare. Come è stato rilevato su questo giornale, casualmente si intercetta una o due volte, ma decine di intercettazioni non sono più un caso. Ed è legittimo chiedersi perché, invece di essere distrutte, queste intercettazioni siano state inviate alla presidente Colosimo ancorché - come ha riconosciuto la stessa procura nissena - prive di rilievo penale, con l’effetto negativo di intralciare i lavori della Commissione inducendo la presidente, imbarazzata e a disagio, a chiedere un parere tecnico prima di portare gli atti a conoscenza degli altri commissari.

Le polemiche e gli attacchi a Scarpinato seguiti alla rivelazione giornalistica delle predette intercettazioni hanno soprattutto censurato o posto in dubbio la legittimità delle sue conversazioni con l’ex collega Natoli, ma hanno trascurato o sottovalutato la obiettiva gravità del ripetuto ascolto di un senatore al di fuori dei presupposti legali. Ciò si spiega per un verso col fatto che Scarpinato, percepito come un magistrato di sinistra di forte inclinazione giustizialista, costituisce un bersaglio troppo ghiotto nel caso in cui gli avversari trovino facili pretesti per denigrarlo.

Ma è anche vero, più in generale, che il sentimento di rispetto per la legalità rigorosamente intesa può indebolirsi in contesti contingenti, in cui il paradigma vittimario tende a prevalere nella sensibilità collettiva e nell’orizzonte pubblico, e ciò sino al punto di assumere la sacrosanta aspettativa delle vittime a ottenere verità e giustizia a esigenza valoriale prioritaria, come un valore tirannico destinato a prevalere rispetto ai valori e alle pur rilevanti esigenze concorrenti, pressoché in maniera incondizionata. Con la massima comprensione e la massima considerazione per i familiari di Paolo Borsellino, dai quali è pervenuta una forte sollecitazione ad approfondire la pista mafia e appalti - e nonostante il timore di apparire poco sensibili a quel bisogno di verità che le vittime comprensibilmente avvertono come un diritto imprescrittibile - un rischio riteniamo vada segnalato: cioè quello di ulteriori effetti (involontariamente) perversi derivanti da un forse affrettato interventismo magistratuale che suscita l’impressione di sposare in pieno le ragioni di specifiche vittime in carne e ossa (come se la giustizia fosse - per dir così - privatizzabile sia pure a nobili fini) e dall’operare di una Commissione antimafia che nella sua attuale maggioranza sembra condividere la tesi - obiettivamente opinabile - che Borsellino sia stato eliminato per impedirgli di sviluppare indagini sul tema mafia e appalti. È questa a tutt’oggi un’ipotesi esplicativa che va verificata insieme ad altre, non una certezza acquisita.