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di Daniele Zaccaria

Il Dubbio, 12 giugno 2023

40 anni fa l’arresto del celebre conduttore. Le colpe dei giudici, della politica e dei media. Il caso Tortora non fu soltanto un gigantesco errore giudiziario ma l’emblema stesso della deriva giustizialista di un Paese, una vergogna collettiva che ha coinvolto la magistratura, il mondo politico, e (quasi) tutto il sistema dell’informazione.

In quel grumo di umori neri c’è tutto: il pregiudizio e la sciatteria delle procure, la vigliaccheria del Palazzo, la gogna pubblica, il processo mediatico, la macchina del fango e della calunnia che fa a pezzi la presunzione di innocenza. In un’escalation kafkiana che non lascia alcuno scampo, tra incredulità e disperazione. All’inizio lo stupore, poi la paura e la solitudine, anche gli “amici” che iniziano ad arricciare il naso a sospettare qualcosa e poi si abbandonano alla vox populi: “Beh se lo hanno arrestato qualcosa avrà pur fatto...”.

Rileggere gli articoli di giornale di quei giorni è ancora un tuffo al cuore, plotoni di esecuzione, linciaggi corali, character assassination di stampo lombrosiano e l’infame sarcasmo sulla celebrità che sprofonda nel guano. Il circo dell’informazione italiana dà il peggio di sé, senza distinzione di colore politico, speculando sulla “calma sospetta al momento dell’arresto” (Il Tempo), sul “mestiere con cui fa la parte della vittima innocente” (Il Giorno) ironizzando sulla “lacrimuccia televisiva che nasconde l’ardore per il denaro” (Il Secolo XIX).

Sulla prima pagina del Giornale compare un Elzeviro anonimo (si dice fosse di Indro Montanelli) che recita: “Dicono che la tv di Stato è una droga. Mai detto è stato più vero dopo l’arresto di Tortora”. Ma forse la voce che le riassume un po’ tutte appartiene a Camilla Cederna che su la Domenica del Corriere scrive: “Non si va ad ammanettare uno nel cuore della notte se non ci sono delle buone ragioni”. Eppoi alla Cederna Tortora non piaceva neanche prima: “Mi innervosiva il pappagallo che non parlava mai e lui che parlava troppo, senza mai dare tempo agli altri di esprimere le loro opinioni”. Questi sì che sono argomenti. Unica voce fuori dal coro quella di Enzo Biagi che in un editoriale si chiede: “E se Tortora fosse innocente?”.

La Storia rende merito ai galantuomini. Sono passati quarant’anni dal quel 17 giugno del 1983 ma le immagini di Enzo Tortora trascinato via in ceppi dai carabinieri e dato in pasto ai fotografi rimangono vivide negli occhi di tutti noi. “Le manette, le manette!”, urlano i cronisti con la bava alla bocca, eccitati come fiere, mentre lo stanno trasportando nel carcere romano di Regina Coeli. Gli uomini della benemerita si erano presentati all’alba, alle 4.20, bussando violentemente nella sua stanza dell’hotel Plaza, hanno disfatto le valigie, perquisito ogni cassetto e sequestrato l’agenda con i numeri di telefono. Enzo Tortora, il garbato giornalista genovese, conduttore dell’amatissimo Portobello, che all’epoca collezionava share da finale dei mondiali di calcio, è accusato di appartenere alla nuova Camorra organizzata di Raffaele Cutolo.

Pareva uno scherzo, una scena surreale roba da dissonanza cognitiva, un po’ come l’Ugo Tognazzi “capo delle Br” immortalato dal giornale satirico Il Male. Solo che non era scherzo.

Lo avevano chiamato in causa due pentiti: Pasquale Barra detto O’ animale e soprattutto Giovanni Pandico che racconta una strana vicenda di “centrini” spediti a Portobello da un camorrista, tal Barbaro, che in realtà sarebbero state “partite di droga”. C’è poi un’agendina nera rinvenuta nell’abitazione di Gabriele Puca, un altro affiliato all’organizzazione di Cutolo: apparteneva alla moglie e tra i vari numeri telefonici ce n’è uno indicato con il nome Tortora. A dire il vero non si legge benissimo, potrebbe essere Tortona o qualcosa di simile. Sarebbe bastato comporre quel numero per verificare il destinatario, un gesto semplice che in tanti anni non è mai venuto in mente a nessun poliziotto o magistrato. Tortora era convinto di poter chiarire tutto in poche ore, lui che quei nomi non li aveva mai sentiti pronunciare in vita sua, doveva essere uno sbaglio, un ciclopico sbaglio. E invece è l’inizio di un incubo durato quattro anni tra custodia cautelare, domiciliari e due processi penali.

Nuovi pentiti si associano al coro e in cambio di benefici, giurano che Tortora è uno di loro, che in carcere il venerdì sera guardano tutti Portobello e fanno battute sul loro “compare”. Il principale accusatore è Giovanni Melluso, camorrista, che racconta agli inquirenti di aver personalmente consegnato a Tortora sette chili di cocaina in un night club di Milano, musica per le orecchie del procuratore Diego Marmo che definì il presentatore “cinico mercante di morte”. Peccato che Melluso si fosse inventato tutto, come confessò nel 2009 in un’intervista all’Espresso.

Prima di ottenere i domiciliari Tortora resta in prigione per oltre sette mesi, due a Roma e cinque nel carcere di Bergamo. In prima linea e unico tra le personalità politiche a sostenere la sua causa è Marco Pannella, che lo visita regolarmente nella casa di Milano e lo candida alle europee per il partito radicale. Tortora viene eletto con una valanga di voti. Ma dopo la condanna a dieci anni nel processo di primo grado rinuncia all’immunità convinto che in appello riuscirà a ribaltare il teorema dell’accusa. Una scelta coraggiosa e lungimirante: i collaboratori di giustizia ritrattano uno dopo l’altro, lo stesso Cutolo afferma che Tortora per la Camorra è un perfetto sconosciuto mentre i giudici della Corte d’appello di Napoli lo assolvono con formula piena. Venne stabilito che i pentiti lo calunniarono per ottenere sconti di pena e farsi pubblicità. E tutto il carrozzone mediatico-politico li ha seguiti in un crescendo spaventoso.