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di Liana Milella

La Repubblica, 19 agosto 2022

Lo sfogo dell’ex magistrato: “Continuerò a battermi per la legalità”. Dopo due legislature, sarà fuori dal Parlamento. Il suo rapporto con Giovanni Falcone a 30 anni dall’attentato di Capaci.

In questa estate rovente Piero Grasso non si è fermato. Ha girato l’Italia con il suo ultimo libro sotto il braccio. “Il mio amico Giovanni” è il titolo, e svetta in copertina l’accendino d’argento Dunhill che lui gli affidò poco prima di morire. “Piero, tienilo tu. Ho deciso di smettere. Se dovessi ricominciare, me lo dovrai restituire” gli disse. Per un caso, Grasso non era sull’aereo, né sulla macchina saltata per aria a Capaci. Di certo, da quel 23 maggio, ha testimoniato ogni giorno, e non solo negli anniversari, la sua fedeltà all’amico che in vita non poteva certo contare sui tanti “amici” spuntati solo “dopo” come funghi.

Conviene partire da qui per raccontare la “non” candidatura di Piero Grasso. Senatore dal 2013 scelto da Bersani, presidente del Senato per cinque anni, rieletto con Leu nel 2018. Ma adesso, nel Pd di Enrico Letta, non c’è più posto per lui. Anche se Grasso ha creduto nel “campo largo”, ma non è di quelli che sanno sgomitare per un posto in lista. Non è nel suo stile di gran signore siciliano.

Nella sua voce si avverte l’amarezza. Ma lui la nasconde bene. Al telefono risponde, ma di elezioni e candidature non vorrebbe parlare. Si riesce a fatica a strappargli una battuta. “Io continuerò, come ho sempre fatto, a fare la mai parte per la giustizia, per la legalità, per la ricerca della verità. Ho fatto questo per tutta la mia vita, con la toga addosso, e poi da senatore. Andrò avanti su questa strada”.

Certo è davvero singolare che resti a casa un magistrato come lui, a cui si rivolgevano tutti i senatori quando c’era da parlare di giustizia. Compresi quelli del Pd, ovviamente. Poco incline ai compromessi, questo è certo, e deve averne visti tanti, anche se si trattiene dal raccontarli. Rivelazioni e pettegolezzi non fanno per lui. La sua idea della politica e della giustizia pecca forse di ingenuità, in un mondo di lupi. Eccolo dire che “si può fare politica, quella con la P maiuscola e non quella clientelare, formando i giovani al senso delo Stato, nella speranza che le nuove generazioni possano finalmente cambiare questo nostro Paese”.

Sì, questo è certo, Grasso continuerà a raccontare, come sta facendo, a chi nel 1992 non era ancora nato, di quando Falcone gli consegnò, a lui giudice a latere, i faldoni del maxi processo nel suo bunker a Palermo. Era il 1986 e l’avventura del primo grande processo contro Cosa nostra cominciava in quel momento. Racconterà di quando Falcone lo chiamò in via Arenula per lavorare con lui alle nuove leggi contro la mafia. Ricorderà i loro pranzi di lavoro. E quel sabato di maggio in cui tutto è finito. La corsa in ospedale. E Falcone ormai già freddo sulla barella.

Per chi parla e scrive di Falcone senza averlo conosciuto, senza aver vissuto le sue tristezze per i tanti nemici, anche magistrati, che aveva, Grasso rappresenta una memoria storica unica. E adesso, mentre il centrodestra si appresta ad aggredire i giudici e la giustizia, sarebbe utile avere in Parlamento quella memoria storica. Che certo potrebbe raccontare, per aver ascoltato Falcone mentre lo ripeteva, perché è di certo giusto distinguere con nettezza la carriera di giudice da quella di pm, ma nell’unicità della giurisdizione. Nessuna separazione delle carriere.

Ma tant’è. I magistrati non vanno più di moda nel Pd. Neppure quelli che per il Pd, come Grasso, hanno rinunciato a sette anni di carriera. Perché nel dicembre 2012, quando Bersani gli offre la candidatura, l’allora procuratore nazionale Antimafia ha di fronte a sé altri sette anni, visto che solo nel 2014 l’età pensionabile delle toghe passa da 75 a 70 anni. Ma Grasso rinuncia a quegli anni per l’avventura della politica. Eletto, resta senatore per un giorno, giusto il tempo di presentare una proposta di legge contro la corruzione, il voto di scambio, il falso in bilancio che, ricorda Grasso adesso, “proprio la politica aveva cancellato”.

Poi viene eletto presidente del Senato. “Con un ruolo istituzionale e sopra le parti - ricorda Grasso - mi sono sentito a mio agio. È stato un passaggio soft e di certo non brusco”. Il resto è storia politica, Bersani lascia il Pd, lui resta al vertice di palazzo Madama. Di sicuro la destra, a cominciare da Berlusconi, non gli perdona quel 27 novembre 2013 quando l’emiciclo votò per la decadenza del capo di Forza Italia dopo la condanna per frode fiscale nel processo Mediaset.

Nel 2018 Leu non fa il botto, ma Grasso entra in Senato e nella commissione Giustizia continua la sua battaglia per la legalità. È un tecnico, e sa dove mettere le mani, e scopre le magagne in ogni emendamento presentato. Quando Enrico Letta lancia il “campo largo” lui ci crede. Un anno fa, nell’anniversario della morte di Paolo Borsellino, è a Palermo per la prima agorà accanto a Letta. E a novembre organizza l’agorà democratica sull’ergastolo ostativo, in vista di una legge che risponda alla decisione della Consulta sull’incostituzionalità di rifiutare la liberazione condizionale a chi ha già scontato 26 anni di carcere, ma non ha collaborato con la giustizia.

Il leit motiv del “campo largo” si è spento. Grasso ha continuato a crederci. Come crede nel ruolo di testimonial unico di una grande stagione di magistrati uccisi proprio perché avevano la schiena troppo diritta. Anche Grasso volevano far saltare in aria con il tritolo nascosto in un tombino. L’ha salvato una coincidenza. Peccato che la sua preziosa testimonianza, la sua esperienza, quel suo dire “Falcone avrebbe fatto così…”, non possa tenere a freno l’agguerrito centrodestra anti magistrati.