di Fabio Ciaramelli
Il Mattino, 26 luglio 2024
“Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”. Vecchia frase attribuita a Voltaire, ma ritornata tristemente attuale alla luce delle recenti cronache della tragica inospitalità delle prigioni italiane. Vi ha assai autorevolmente richiamato l’attenzione il presidente della Repubblica nel suo discorso alla cerimonia del Ventaglio, su cui è già intervenuto con ricchezza di dati umani e riferimenti statistici, ieri su queste colonne, il garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello. In sostanza, a partire dall’impressionante numero dei suicidi tra le persone private della libertà (e, sia pur in misura assai minore, tra gli stessi membri della polizia penitenziaria) e dalla denuncia dei disagi e delle condizioni di violenza e senso di abbandono che rendono un vero e proprio inferno la permanenza in carceri sovraffollate e spesso fatiscenti, Sergio Mattarella diceva che è semplicemente inaccettabile e indegno d’un Paese civile che il carcere diventi “il luogo in cui si perde ogni speranza”. Ebbene, non si tratta solo di nobili parole, da leggere come espressione di buonismo, generosità e altruismo, quasi una necessaria implicazione o prosecuzione della sesta opera di misericordia corporale che, secondo il(vecchio) dettato del catechismo, consiste(va) nel “visitare i carcerati”.
Ci sono almeno altri tre aspetti, alla base dell’accorato richiamo del Capo dello Stato, che devono essere sottolineati: in primo luogo, il riferimento alla Costituzione, secondo la quale le pene ingenerale (quindi, non solo ma anche la detenzione in carcere) “non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” (art. 27); in secondo luogo, la consapevolezza che la dimensione coercitiva dello Stato certamente rivendica per sé consuccesso il “monopolio della violenza fisica legittima” (Max Weber), ma quest’ultima non è fine a sé stessa, men che meno può essere intesa come una specie di sostituzione più o meno attenuata o sublimata della vendetta personale, ma ha come suo esplicito obiettivo l’incremento della coesione sociale e non il suo disfacimento; interzo luogo, l’esigenza ormai indilazionabile di contrastare un senso comune diffuso, fatto di estraneità e indifferenza circa le condizioni della “patrie galere” di cui le “persone per bene” non avrebbero motivo di occuparsi, e tantomeno di preoccuparsi.
A proposito di quest’ultimo aspetto, bisogna riconoscere che un’opinione pubblica trasversale teorizza e pratica un attivo e consapevole disinteresse circa le condizioni concrete delle carceri, nonostante la conclamata invivibilità di queste ultime. Ciascuno di noi può agevolmente rendersene conto dal proliferare di battute, spezzoni di dialogo e condivisione di confidenze che, ad ogni occasione propizia, ostentano distacco e insensibilità su questi temi.
Senza arrivare all’auspicio di quelli che si compiacciono all’idea di sbattere i delinquenti in cella e buttare la chiave, anche in segmenti non particolarmente bellicosi dell’opinione pubblica è diffusa l’idea più o meno inconscia, secondo la quale “chi è causa del suo mal pianga sé stesso”: ragion per cui i tanti cittadini onesti e rispettosi delle leggi non avrebbero motivo di preoccuparsi per coloro che stanno al fresco (e che in questi giorni, però, crepano di caldo), dove pagano il prezzo delle proprie colpe. Ci saranno anche disagi e scomodità nella detenzione in strutture carcerarie sovrappopolate, ma ciò è considerato inevitabile, dal momento che - come si dice o si sottintende - il carcere non è, non può essere e non deve essere un “grande albergo”.
Motivo di preoccupazione ben maggiore è la paura o il sospetto che siano ancora a piede libero un numero imprecisato di soggetti pericolosi, anche se già “attenzionati” dalle forze dell’ordine. Se ne deduce una grande resistenza sociale a mobilitarsi per un vero rinnovamento delle condizioni carcerarie. Ecco perché la diffusione di pene alternative, i discorsi di umanizzazione della pena, le proposte di norme “svuota-carceri” e altre riforme del genere hanno poco seguito in un’opinione pubblica nel cui inconscio collettivo campeggia e troneggia l’idea che gli autori dei misfatti paghino “il giusto fio” senza troppi fronzoli. Insomma, mentre più o meno ipocritamente si plaude alle parole di Mattarella, in realtà nessuno poi si straccia le vesti per l’invivibilità delle carceri.
Che però resta un problema enorme per tutti e non solo per i detenuti che la subiscono sulla propria pelle. Infatti, se le carceri invece di diventare davvero occasione per la “rieducazione del condannato” continuano a essere luogo di perdizione non solo di quest’ultimo, ma anche di chi è in attesa di giudizio, se soprattutto si confermano efficacissima università del crimine, soprattutto per i più giovani, se comunicano l’impressione che l’unico antidoto alla violenza è la vendetta (più o meno mascherata), allora le conseguenza non le pagheranno solo quelli che stanno al fresco, ma infin dei conti le pagheremo tutti.