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di Gennaro Grimolizzi

Il Dubbio, 14 luglio 2023

L’appello del giurista Vincenzo Maiello: “La politica trovi coraggio e metta mano a una “norma” fumosa e cervellotica”. Ogni giorno che passa la giustizia offre nuove tracce su cui discutere. Tra queste la possibilità, paventata mercoledì scorso dal guardasigilli Carlo Nordio, di modificare il concorso esterno in associazione mafiosa. È giunta l’ora, secondo il professor Vincenzo Maiello, nell’Università di Napoli “Federico II”, che il legislatore se ne occupi seriamente.

Professor Maiello, il dibattito sulla giustizia si fa sempre più acceso e non mancano le contrapposizioni. Due giorni fa, il ministro Nordio ha sottolineato l’esigenza, a proposito del processo accusatorio, dell’adozione del “modello anglosassone”. Si riuscirà ad intervenire in tal senso?

Premesso che non esiste un modello processuale esportabile senza gli adattamenti che reclamano le tradizioni culturali, le esperienze storico-politiche e le peculiarità costituzionali dei singoli paesi e ordinamenti. Più realisticamente, andrebbe, allora, considerato quel che potrebbe e dovrebbe esser fatto per portare a compimento la riforma codicistica del 1988, nelle sue strutture portanti divenuta diritto costituzionale in seguito alla riformulazione dell’articolo 111 della Carta. In questa prospettiva, il cantiere degli interventi normativi dovrebbe annoverare la rivisitazione di snodi fondamentali del processo e dei suoi riferimenti ordinamentali: separazione delle carriere dei magistrati, riconfigurazione del sistema delle impugnazioni, estensione dei poteri negoziali di definizione delle regiudicande, riaffermazione dell’immediatezza e tutela dell’esigenza dell’immutabilità del giudice (della prova e della decisione), riscrittura del procedimento probatorio con sanzioni rigorose a difesa della legalità dell’acquisizione delle informazioni processuali. Finora queste aspirazioni hanno alimentato una sorta di libro dei sogni, ritenuto specchio di un approccio ingenuo e astorico ai problemi della nostra giustizia. Spetta a quella parte della politica che, oggi, dice di richiamarsi alle matrici culturali di quel paradigma tradurlo in realtà. Ne avrebbe i numeri. Deve dimostrare di possedere la forza culturale di sostenerne l’attuazione nel discorso pubblico e sul mercato del consenso.

Il guardasigilli ha anche detto che occorre modificare il concorso esterno in associazione mafiosa, definendolo “un reato evanescente, un ossimoro” e che per questo “va rimodulato”. Cosa ne pensa?

Sarebbe ora che una delle frontiere avanzate del contrasto penale alle condotte di sostegno delle associazioni mafiose formasse oggetto di una disciplina parlamentare, ponendo fine ad un travaglio giurisprudenziale più che trentennale. In questa materia, la giurisprudenza ha svolto un compito paranormativo, nella latitanza colpevole del legislatore. Vorrei anche ribadire che, nelle sue espressioni di vertice, l’attività di nomofilachia ha saputo esprimere una raffinata capacità di bilanciamento fra opposte esigenze, sdoganando soluzioni ermeneutiche di indiscutibile ragionevolezza politico- criminale. Ma c’è di più.

Dica pure…

Il fatto è che queste soluzioni incontrano difficoltà ad essere metabolizzate dalla magistratura inquirente, prima, e dalla giurisprudenza che si trova quotidianamente impegnata sul fronte dei processi di mafia. La conseguenza è che vengono spesso assunte decisioni che aggirano i protocolli più rigorosi di legalità giurisprudenziale, se mi è consentita questa espressione, ed è così, allora, che il concorso esterno diventa un dispositivo di sfuggente identità e di evanescente accertamento, rimesso a ricostruzioni fumose e a tratti cervellotiche.

Cosa suggerisce a tal riguardo?

Occorre che della materia si occupi il legislatore, assumendo la responsabilità di stabilire se e come punire il favoreggiamento dei sodalizi mafiosi. Lo spettro delle soluzioni prospettabili è ampio e complesso: si vuole che il concorso esterno si trasformi in una nuova, autonoma figura di reato, oppure si reputa sufficiente la previsione come aggravante della finalità di agevolazione mafiosa? Nel primo caso, va deciso se affidarsi ad una figura generale di sostegno associativo, ovvero a specifiche incriminazioni di peculiari condotte di collusione. Ancora, se costruire fattispecie di condotta di più facile accertamento, pur se qualificate da concreta idoneità offensiva, oppure reati di evento che finirebbero per riproporre i nodi problematici della causalità. Considerata la quantità e la qualità delle questioni sul tappeto, sarebbe auspicabile che l’opera riformatrice passasse attraverso il lavoro di studio e di proposta di una apposita Commissione ministeriale aperta a studiosi, avvocati e magistrati.

Negli ultimi giorni, quasi tutti gli esponenti politici sono intervenuti sulla vicenda del sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro, e sull’imputazione coatta che lo ha riguardato da parte del Gip del Tribunale di Roma. Tanto rumore per nulla?

Un controllo giurisdizionale sull’azione resta una garanzia imprescindibile, ancor più in un sistema che si vorrebbe traghettare verso la distinzione degli statuti ordinamentali dei magistrati dell’accusa e di quelli della decisione.

La separazione delle carriere taglierà il traguardo?

Se non dovesse farlo, in una stagione di governo nella quale il ministro della Giustizia lo ha esplicitamente assunto come punto qualificante del proprio programma, sarebbe allora il caso di archiviarlo tra le aspirazioni storicamente non realizzabili nella specificità del contesto italiano.

Secondo lei, stiamo assistendo ad uno scontro tra magistratura e governo?

Nelle democrazie contemporanee la dialettica tra sfera della discrezionalità politica e ambito dei poteri di controllo delle istituzioni di garanzia appartiene, per molti versi, ad una dimensione fisiologica dell’architettura ordinamentale. Nelle esperienze degli Stati costituzionali, il rapporto tra i poteri implica una qualche fluidità delle rispettive dinamiche. Quando, però, le relazioni fra poteri registrano inusuali contrapposizioni, vuol dire che si è innanzi ad una fase di crisi, che può avere una più profonda matrice culturale e ideologica, in quanto investe i fondamenti stessi delle rispettive prerogative, oppure può essere legata al tentativo di un potere di riappropriarsi di sfere di azione finora delegate all’altro.