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di Eugenio Occorsio

L’Espresso, 30 novembre 2023

Uno Stato diviso. Oggetto degli interessi di Iran, Russia, Turchia e Stati Uniti. Se la situazione esplode nel Paese del dittatore Assad la guerra rischia di estendersi in Medio Oriente. La Siria incombe come l’ennesima minaccia che la guerra in Israele degeneri in un conflitto più ampio: in nessun Paese al mondo come in Siria esiste un coacervo di interessi così concentrato e pugnace, prova ne sia la guerra civile “tutti contro tutti” scoppiata nel 2011, che cova tuttora sotto la cenere e ha provocato 640 mila morti, seconda nel XXI secolo solo alla “Seconda guerra del Congo” (2000-06) che di vittime ne ha fatte 5 milioni.

Proviamo a ricostruire il puzzle siriano, visto che il conflitto di Gaza può essere la miccia per l’escalation militare nel Paese confinante altrettanto strategico. Seconda premessa: il governo di Damasco è sostenuto storicamente da Mosca, e indirettamente da Teheran. Gli Stati Uniti da anni stanno provando a disimpegnarsi ma come in altre proxy war devono calibrare l’uscita anche se hanno in Siria ormai poche postazioni, residuo della guerra all’Isis, con 9 mila uomini (la metà di quelli che rimangono in Iraq).

Ecco le parti in causa. Il presidente Bashar al-Assad è ancora al suo posto nonostante pesi su di lui la denuncia dell’Onu di aver arrestato, torturato o fatto sparire 130 mila oppositori, nonché di aver usato armi chimiche contro la sua gente ignorando le risoluzioni che gli imponevano di abolirle. I giudici francesi hanno emesso un mandato d’arresto per Assad il 14 novembre per il massacro di Douma dell’agosto 2013 quando furono gasati 1.400 civili nel più grave attacco chimico del XXI secolo, e due giorni dopo la Corte dell’Aja gli ha ingiunto di fermare le torture sugli oppositori.

La seconda componente etnica dopo gli arabi in Siria sono i curdi (7,5 milioni su 25 milioni in totale), asserragliati nella regione nord-orientale del Rojava. Con loro il regime ha una fragile intesa di non antagonismo che li tiene in sospeso nell’eterna ricerca di una loro terra. Va peggio ai confinanti curdi di Turchia, che sono riusciti a esprimere un partito d’opposizione il cui capo Selahattin Demirtas langue però nelle carceri di Recep Tayyp Erdogan. Pochi giorni fa i droni turchi hanno distrutto la casa in territorio siriano di Shibi Derik, un dirigente curdo sospettato di terrorismo.

Sullo scacchiere siriano si muovono poi gli oppositori tuttora attivi a Dara’a, la città al confine con la Giordania dove nacque la “primavera” nel 2011 sotto forma di richieste di riforme liberali, sfociata in guerra civile. Un nutrito manipolo jihadista di oppositori ha poi base a Idlib, nel Nord-Ovest del Paese: il contrasto ai miliziani spetterebbe ad Ankara sulla base di un’intesa russo-turca, ma nell’incertezza si sono scatenati a metà novembre i jet russi con un bombardamento che ha lasciato sul terreno cento fra morti e feriti. E ci sono infine le ultime frange dell’Isis, a cui è legata la conclusione della fase più calda della guerra civile che ha causato 7 milioni di profughi. Il gruppo terroristico, nato in sordina alla fine del secolo scorso, si attrezzò proprio per spodestare Assad, inizialmente visto con favore dagli americani.

“È una falsità e una grossolana esagerazione che sia stato addirittura addestrato dalla Cia, come spesso si sente dire”, puntualizza Laura Mirachian, già ambasciatrice a Damasco e profonda conoscitrice dell’area. “Ma è vero che gli americani, come altri Paesi occidentali, visto che faceva gioco l’opposizione al regime, all’inizio sottovalutarono il potere eversivo di questo gruppo paramilitare in cui erano affluiti i reduci di al-Qaeda, contribuendo di fatto alla sua trasformazione nella minaccia per il mondo intero che tutti ricordiamo con orrore”.

L’emiro Abu Bakr al-Baghdadi proclamò la nascita dello “Stato islamico” fra Iraq e Siria, il 29 giugno 2014. Seguì un’ondata di efferatezze che perse di vista l’obiettivo del controllo di Damasco, finché contro l’Isis si coalizzarono tutti: americani, russi, australiani, canadesi, israeliani, inglesi, iraniani, arabi, le stesse forze armate siriane, nonché - fattore decisivo - i curdi sostenuti dagli Usa (che poi non hanno avuto in cambio la promessa autonomia né in Siria né altrove). Mentre i peshmerga combattevano a terra, gli americani bombardavano le basi in Siria a partire dal 23 settembre 2014 e il 30 attaccarono i russi. Il 17 ottobre 2017 cadde Raqqa, la città siriana eletta capitale del califfato al pari dell’irachena Mosul, bombardata anch’essa a tappeto e caduta negli stessi mesi.

La lotta contro l’Isis non è priva di conseguenze: “Delle sospirate riforme, Assad ne ha fatte ben poche; ha salvato se stesso e la sua famiglia però ha pagato con l’isolamento, pesanti sanzioni occidentali e la perdita di autonomia e potere politico”, riprende Mirachian, una delle poche donne del corpo diplomatico con il grado di ambasciatore. “Assad - conferma Stefano Silvestri, già sottosegretario alla Difesa e consulente di vari governi - è una specie di sovrano dimezzato, incapace di controllare le milizie che imperversano nel suo Paese, dagli hezbollah che risalgono dal Libano fino ai tanti gruppi sparsi, più o meno sempre vicini all’Iran, periodicamente attaccati dagli israeliani e dagli americani, che sono arrivati a bombardare gli aeroporti di Damasco e Aleppo quando arrivavano carichi sospetti da Teheran”.

Proprio sul ruolo dell’Iran si stanno addensando, in questi giorni di guerra a Gaza, pesanti sospetti: si teme che Teheran voglia sfruttare il momento di generale spaesamento per creare un “corridoio” logistico-militare attraverso Iraq, Siria e Libano, che lo porti fino al Mediterraneo. È la “Mezzaluna sciita” che da decenni turba i sonni di tutti: da Washington a Gerusalemme.