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di Carlo Bonini

La Repubblica, 10 novembre 2023

L’autrice, nel suo ultimo saggio, ricostruisce il vulnus alla verità inferto dai Servizi alle istituzioni democratiche tra le stragi di piazza Fontana e Bologna. Non è semplice misurarsi con il capitolo più oscuro e cruciale della nostra storia repubblicana - gli anni dal dicembre 1969 all’agosto 1980, dalla strage di piazza Fontana a quella di Bologna - indagando sul vulnus alla verità che le hanno inferto i nostri Servizi segreti di allora. A maggior ragione, non lo è con il rigore e la completezza di cui è capace solo la ricerca storiografica e, insieme, con la passione di chi dimostra di maneggiare con sicurezza la storia politica del nostro secondo Novecento. Benedetta Tobagi, con il suo Segreti e lacune (Einaudi), è riuscita a farlo. Consegnandoci un libro civile che è, insieme, un’inchiesta sul potere, sulla dimensione e natura della sua “indicibilità”, e una denuncia sulla macroscopica arbitrarietà della gestione del segreto e della ragione di Stato da parte di chi aveva il compito di esercitarlo in modo rispondente al giuramento di fedeltà costituzionale.

Il motore dell’indagine sono gli archivi della nostra Intelligence sugli anni dello stragismo resi disponibili dalla direttiva Renzi del 2014 e riversati nell’Archivio centrale dello Stato, cui Tobagi ha avuto accesso e di cui ricostruisce gli osceni vuoti nella dialettica intercorsa nel tempo con la magistratura inquirente. Da piazza Fontana a Peteano, a piazza della Loggia, all’Italicus, a Bologna. Nella forma del racconto serrato, denso, scandito dalle felici citazioni del Macbeth, la tragedia con cui Shakespeare indagò il Potere.

Illuminando la sottrazione di verità che ci è stata inflitta e le storie e i profili degli uomini che, per oltre vent’anni, all’indomani della prima legge di riforma dei nostri Servizi (1977), si sono avvicendati alla direzione delle nostre agenzie di Intelligence - quella militare (già Sifar, già Sid e quindi Sismi) e quella civile (Sisde) - e di quelli che, nella veste di autorità politica, erano deputati ad averne i poteri di controllo e indirizzo, il libro documenta la tabe da cui la nostra giovane democrazia è stata condizionata almeno fino alla caduta del muro di Berlino. “Il dato certo - scrive Tobagi - è l’esistenza, in Italia, di un variegato blocco di potere conservatore comprendente settori cruciali della classe dirigente, del mondo economico, dalle banche all’industria, e degli ambienti militari”.

“Una sorta di destra profonda ben più estesa della sua espressione parlamentare, come denuncia più volte Aldo Moro a partire dal 1962”. “Una componente conservatrice e reazionaria della società e della politica italiana che ha tentato di sfruttare a fondo la Guerra Fredda per bloccare o comunque ostacolare una più profonda democratizzazione della società”. Un blocco - viene da aggiungere - figlio della mancata de-fascistizzazione dell’Italia all’indomani del secondo conflitto mondiale. E dunque naturalmente transitato dall’appartenenza al regime fascista alle neonate istituzioni repubblicane e ai loro apparati di sicurezza.

Formati a una doppia fedeltà - quella formale del giuramento di lealtà repubblicano e quella materiale dell’anticomunismo nella versione declinata dall’oltranzismo atlantico - i nostri Servizi lavorano negli anni settanta e nei primi ottanta del Novecento a una sistematica “destabilizzazione del sistema democratico” allo scopo di “stabilizzarlo” in senso neo-centrista e conservatore. Trasformano l’Italia in quello che, già alla fine degli anni ‘70, l’allora capo della Cia William Colby definiva “il più grande laboratorio di manipolazione politica clandestina” degli Stati Uniti. E lo fanno secondo una feroce e discrezionale agenda domestica che contempla anche “indicibili” legami, politici e operativi, con esponenti e formazioni della destra eversiva e con la criminalità organizzata. Fino a quando - è il marzo del 1981 - la scoperta degli elenchi P2 mostra come la loggia coperta del venerabile Licio Gelli (che la giustizia penale ci indica oggi come mandante della strage di Bologna) si configuri essa stessa “come un servizio di informazione parallelo”. E questo in ragione della centralità che le informazioni riservate rivestono ai fini del controllo e del ricatto permanente dei gangli della vita democratica del nostro Paese.

La lezione che questo passato ci consegna - osserva Tobagi - è che “la quota di indicibilità rispetto alle attività del potere esecutivo e dei Servizi segreti è piuttosto ampia e le pratiche volte a garantire l’incontrollabilità dei secondi, anche a posteriori, sono state a lungo la norma”. Ebbene, decidere cosa farne nel presente è l’interrogativo di cui non solo si carica il libro ma che in fondo interpella chiunque abbia a cuore la qualità del nostro presente e futuro democratico. Tobagi offre una possibile risposta. La consapevolezza di un costante e perdurante deficit di trasparenza degli interna corporis repubblicani, così come della complessità delle origini della stagione delle “deviazioni di Stato”, possono “proteggerci dal rischio di ricostruzioni falsate, opportunistiche, semplicistiche o consolatorie” della nostra storia recente. Possono diventare “precondizione di una ricerca storica che sappia affrontare con onestà anche le pieghe più oscure senza farsene schiacciare e dunque possa davvero servire come strumento di maturazione e manutenzione della vita democratica del Paese”. Siamo d’accordo con lei.

Il libro - “Segreti e lacune”, di Benedetta Tobagi (Einaudi, pagg. 336, euro 29)