sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di Oliviero Mazza*

Il Dubbio, 20 agosto 2022

Il giudice che spinge l’imputato a soluzioni riparative viola la presunzione d’innocenza. E si eccede la delega. Da pochi giorni è disponibile il testo del decreto legislativo destinato a dare attuazione alla legge delega per la riforma del processo penale. Complice la pausa di agosto, il primo dato di rilievo è il silenzio con cui è stata accolta la proposta governativa. Silenzio che investe, anzitutto, una non trascurabile questione di metodo legislativo: il Governo dimissionario, incaricato del disbrigo dei soli affari correnti, era costituzionalmente legittimato all’approvazione dei decreti attuativi della legge delega? Quale Parlamento renderà i pareri e quale Governo sarà chiamato all’approvazione definitiva?

Sarebbe un serio vulnus costituzionale se l’iter della riforma venisse concluso dalle Camere sciolte e da un Governo dimissionario, mentre nella prospettiva più realistica che tutto venga rinviato a dopo le elezioni politiche non si spiega perché i programmi elettorali, appena presentati, non ne facciano alcuna menzione, in una singolare rimozione collettiva.

In chiave psicoanalitica la spiegazione del silenzio potrebbe essere l’allontanamento di quei contenuti politicamente disturbanti. Chi propugna, ad esempio, ricette law and order non può certo giustificare dinanzi al suo elettorato il senso di una modifica del sistema sanzionatorio che va in netta controtendenza.

Beninteso, meglio il silenzio rispetto a un tardivo rigurgito populista proveniente proprio da quelle forze politiche che, all’unanimità, hanno approvato lo schema di decreto legislativo. Vanno però segnalati i toni surreali di una campagna elettorale che, sul tema cruciale della giustizia penale, oscilla fra la rimozione e la formazione reattiva.

A dispetto del doloso silenzio della politica, la netta connotazione ideologica della riforma si coglie nel superamento del modello ispirato al cognitivismo garantista del codice del 1989 in favore di un sistema di decisionismo processuale avente carattere anti- cognitivo e potestativo, in cui l’efficienza repressiva è il portato di un sostanzialismo etico. Non è una riforma “tecnica”, ma profondamente intrisa di valori politici e di una nuova, contestabile, visione del processo penale che meriterebbe di essere spiegata al corpo elettorale.

Scomparso il tradizionale approccio assiologico, la tensione verso il raggiungimento di un obiettivo di riduzione dei tempi eleva l’efficienza a fine ultimo del processo, a prescindere dagli strumenti impiegati. Efficienza declinata sul paradigma repressivo e non certo cognitivo, come dimostra la considerazione ricorrente fra i compilatori secondo cui il numero troppo elevato di assoluzioni sarebbe il sintomo di una grave inefficienza del processo. Questo modo di pensare svela la finalità recondita che si vuole raggiungere, ossia quella di ridurre le garanzie processuali considerate un inutile ostacolo che separa l’imputazione dalla condanna.

Nella prospettiva del nuovo processo penale la colpevolezza è un dato già accertato nel corso delle indagini, mentre il giudizio serve solo per dare soddisfazione alla pretesa vendicativa della vittima e per instradare l’imputato verso una giusta punizione, direttamente condizionata dalle sue scelte processuali che, più saranno remissive, più gli garantiranno un trattamento di favore.

Paradigmatico, al riguardo, è il nuovo art. 129- bis c. p. p. secondo cui “in ogni stato e grado del procedimento l’autorità giudiziaria può disporre, anche d’ufficio, l’invio dell’imputato e della vittima del reato… al Centro per la giustizia riparativa di riferimento, per l’avvio di un programma di giustizia riparativa”. Ciò significa che, comparendo in giudizio per difendersi nel merito, l’imputato potrà essere costretto dal “suo” giudice ad intraprendere un programma di giustizia ripartiva. Palese è la lesione della presunzione d’innocenza e del diritto di difesa, ma ancor più preoccupante è il pre- giudizio insito nella scelta del giudice. La giustizia ripartiva è un “gioco di ruolo” che può svolgersi solo dopo l’accertamento della responsabilità secondo le regole del giusto processo, non certo ai blocchi di partenza, quando i ruoli non sono definiti, per ordine di un giudice che così esprime “debitamente” il suo convincimento senza divenire incompatibile al successivo giudizio. Nel corso delle indagini sarà il pubblico ministero a ordinare all’imputato di comparire dinanzi al mediatore, così recuperando surrettiziamente l’idea, invero mai abbondonata dai conditores, della archiviazione meritata. Chi, invece, si sottrarrà al “percorso di recupero”, pagherà la scelta difensiva con un corrispettivo inasprimento della pena in caso di condanna. Uno scenario distopico in cui non conta più l’accertamento del fatto e della responsabilità, ma la composizione del conflitto da parte di un “saggio mediatore, psicanalista o parroco più che giurista”, come ricorda Bruno Cavallone.

L’attuazione della riforma si colloca in larga parte al di fuori del perimetro della Costituzione, anche per eccesso di delega, come nella disciplina del processo a distanza che prescinde dal consenso delle parti, o nei limiti di accesso al giudizio d’appello imposti da un vaglio di ammissibilità sempre più stringente. Non meno preoccupante è la scelta del processo telematico attuata senza dare spazio all’autodifesa personale pur prevista dalla Carta fondamentale, o il ritorno al carcere per chi non è in grado di pagare le pene pecuniarie. Ogni disposizione dello schema di decreto legislativo nasconde sorprese, non sempre gradite a chi crede ancora nei valori della Costituzione. Vi sono buone ragioni per tornare a discutere della riforma Cartabia in questa campagna elettorale o, quantomeno, nella prospettiva di pareri parlamentari che segnalino al Governo i non pochi profili di illegittimità costituzionale.

*Ordinario di Diritto processuale penale all’Università Bicocca