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di Silvia M. C. Senette

Corriere della Sera, 25 agosto 2023

La Cassazione: “Non è una dimora privata”. L’uomo, un sessantenne veneto, sosteneva tramite i suoi legali che le celle in cui era stato recluso fossero inferiori ai tre metri quadrati. Il grave sovraffollamento delle carceri è da tempo una delle criticità più frequentemente sollevate dai detenuti in molti Stati membri del Consiglio d’Europa per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che “proibisce la tortura e il trattamento o pena disumano o degradante”.

Non è però il caso di un sessantenne veneto che si è visto puntualmente e a più riprese “rimbalzare” i ricorsi avanzati per lamentare che le celle in cui è stato recluso a Trento, Verona, Pordenone e Padova erano troppo piccole. Il suo spazio vitale, sosteneva il detenuto tramite i suoi legali, era inferiore ai tre meri quadrati minimi sanciti per legge. Istanze ritenute infondate dalla Corte di Cassazione che, nell’ultima e recente sentenza della prima sezione delle sezioni penali unite, ha stabilito un principio destinato a far discutere ma anche a fare giurisprudenza: la cella non è una dimora privata.

Le dimensioni della cella - Secondo la Cassazione, dunque, la superficie della cella deve sì consentire il movimento, ma non quello paragonabile ai confortevoli spazi di casa. La detenzione è pur sempre un regime che parte dal presupposto della limitazione delle libertà personali, per quanto certamente non debba sfociare nelle violazioni che la Cedu (la Convenzione europea dei diritti dell’uomo) indica come “trattamento inumano e degradante”. Un principio su cui si fonda in particolare l’articolo 3 del testo comunitario, su cui poggiava il ricorso del detenuto. L’uomo aveva trascorso un periodo di detenzione prima nella casa circondariale di Trento, poi nel carcere di Verona, quindi a Pordenone e infine, per tre anni, nell’istituto penitenziario di Padova. L’ultimo ricorso era stato presentato in Cassazione contro l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Venezia, che aveva dichiarato inammissibile una nuova richiesta di valutazione delle condizioni di detenzione applicate.

“La cella non è una dimora privata” - La prima sezione penale presieduta dalla giudice Angela Tardio, con sentenza numero 32582 emessa lo scorso 20 aprile ha però rigettato il ricorso “affermandone l’infondatezza dei motivi”. Il lungo dispositivo del verdetto si addentra in dettagli tecnici quali “il riferimento al computo della superficie del letto singolo, anche se ancorato al suolo” e perfino “la presenza di mensole, travi o tubazioni particolarmente ingombranti”, per poi ribadire un principio “in linea con le condivise, e qui riaffermate, argomentazioni giuridiche svolte nella precedente sentenza”. Ossia che “nello svolgere tale valutazione, il giudice non deve avere come paradigma il movimento di una persona libera nella stanza di una comune abitazione. La cella non è un luogo di privata dimora - ribadisce il presidente della sezione penale 1 - e presenta ovviamente caratteristiche diverse, determinate dalla necessaria limitazione della libertà personale di movimento che è insita nella stessa sanzione detentiva e che è ben presente sia nel comune sentire sia, sotto un profilo giuridico, nei criteri fissati nella legislazione di riferimento per il rilascio del certificato di abitabilità o di agibilità di un immobile destinato ad abitazione”.

“Il ricorso è infondato” - In ultima analisi, quindi, “la “normalità” dei movimenti di un detenuto in una cella arredata va intesa in termini di conformità alla consuetudine, cioè alla usuale e abituale forma di movimenti che un detenuto effettua in cella” e “la cella carceraria non rileva come “luogo di privata dimora” del detenuto e va considerata in modo complementare alle altre parti dell’istituto penitenziario destinate allo svolgimento della vita di relazione della popolazione carceraria e del personale di custodia”. A scanso di equivoci, e anche per prevenire ulteriori tentativi di ricordo, la giudice Tardio mette nero su bianco che “in definitiva, il trattamento carcerario può assumere rilevanza come “inumano o degradante” per la riduzione dello spazio della cella sotto una certa soglia, soltanto quando risulti compressa in misura molto significativa la maggior parte dei movimenti ordinari di una persona detenuta”. Per questo, al primo punto della sentenza, si sancisce che “Il ricorso è infondato”.