di Valentina Capuozzo
treccani.it, 25 gennaio 2023
Con l’ordinanza n. 227 del 2022, la Corte costituzionale ha disposto la restituzione alla Corte di cassazione degli atti con cui quest’ultima aveva sollevato questioni di legittimità costituzionale della disciplina sull’ergastolo ostativo. La normativa impugnata è stata invero oggetto di modifica da parte del recente decreto legge n. 162 del 2022, poi convertito nella legge n. 199 del 30 dicembre scorso, che ha inciso in maniera significativa sulle censure prospettate. Si tratta, nella specie, di una decisione giunta all’esito di un percorso piuttosto lungo di interlocuzione tra la Corte costituzionale e il legislatore. Ma andiamo con ordine.
In primo luogo, occorre chiarire cosa si intende per ergastolo ostativo. In effetti, il significato può dirsi implicito nella stessa locuzione, la quale indica una pena che appunto osta all’accesso, da parte del condannato, alle misure alternative alla detenzione, vale a dire il lavoro all’esterno e la semilibertà, nonché ai benefici penitenziari, tranne la liberazione anticipata e - dopo la sentenza n. 253 del 2019 della Corte costituzionale - i permessi premio. La disciplina è posta dall’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario (legge n. 354 del 26 luglio 1975) e differenzia l’ergastolo ostativo dall’ergastolo comune, pena detentiva a carattere perpetuo che però è mitigata dall’istituto della liberazione condizionale, ossia il beneficio penitenziario per cui l’ergastolano che abbia scontato almeno 26 anni di carcere può accedere a un periodo di libertà vigilata a conclusione del quale, in caso di comportamento corretto, la pena si estingue così consentendogli di riacquistare la libertà.
La ragione della maggiore durezza dell’ergastolo ostativo risiede nel più alto disvalore della condotta che esso sanziona, invero punendo reati particolarmente gravi quali quelli commessi con finalità mafiose, terroristiche o di eversione, la prostituzione e la pornografia minorile, la violenza sessuale di gruppo, il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e alcuni reati contro la pubblica amministrazione. L’unica eccezione prevista per i reati ostativi riguardava i condannati che avessero scelto di collaborare utilmente con la giustizia a norma dell’art. 58 ter dell’ordinamento penitenziario, secondo una disciplina risalente ai primi anni Novanta del secolo scorso, quando l’impegno statale nella lotta alla mafia aveva condotto a una ben precisa scelta di politica criminale: una logica di scambio tra informazioni utili a fini investigativi e conseguente possibilità per il detenuto di accedere al normale percorso di trattamento penitenziario.
Siffatto assetto normativo è stato tuttavia oggetto di scrutinio prima della Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) e poi della Corte costituzionale, che ne hanno messo in luce le criticità. Una pena perpetua non suscettibile di riduzione non è invero aderente ai valori convenzionali e costituzionali che impongono il rispetto del principio di dignità umana da parte della sanzione penale, la cui finalità preminentemente rieducativa non può essere obliterata dalla funzione di prevenzione generale, pure essenziale per il valore della difesa sociale ma mai al punto da rendere l’individuo un mezzo nel perseguimento di tale fine. La collaborazione del condannato con la giustizia, istituto che ha da sempre rivestito un ruolo fondamentale nella lotta alla criminalità, non può dunque rappresentare l’unico parametro per misurare il percorso di effettiva risocializzazione del condannato, poiché essa non sempre è indice di ravvedimento, ben potendo indicare anche diverse valutazioni, quali, ad esempio, quelle utilitaristiche per i vantaggi che la legge vi connette, o, in caso di mancata collaborazione, di protezione nei confronti della propria incolumità o di quella dei propri cari.
Da ciò la necessità di un più affinato bilanciamento degli interessi coinvolti, che la Corte costituzionale ha evidenziato nell’ordinanza n. 97 del 2021 con la quale, pur illustrando le ragioni di incompatibilità con la Costituzione, non ha dichiarato l’illegittimità della normativa sull’ergastolo ostativo, rivolgendosi al legislatore con la tecnica dell’”incostituzionalità prospettata”, facendo leva sui propri poteri di gestione del processo costituzionale e disponendo il rinvio della discussione all’udienza del 10 maggio 2022. Invero - dice la Corte - il semplice accoglimento della questione avrebbe potuto mettere a rischio il complessivo equilibrio della disciplina e le esigenze di prevenzione generale e di sicurezza collettiva che essa persegue nel contrasto alla criminalità mafiosa. Ecco dunque la necessità di un intervento del legislatore, volto a trasformare da assoluta in relativa la presunzione di pericolosità ostativa alla concessione dei benefici e delle misure alternative in favore dei detenuti non collaboranti.
All’invito della Corte costituzionale, il Parlamento ha risposto con l’approvazione di un disegno di legge da parte della Camera dei deputati in data 31 marzo 2022, che è stato trasmesso per la discussione in Senato il 1° aprile (N. AS 2574), inducendo la Corte costituzionale a differire ulteriormente la discussione, rinviata all’udienza dell’8 novembre 2022 per dare modo al Parlamento di completare i lavori sulla normativa di riforma prevista nel disegno di legge in discussione. Lo scioglimento anticipato delle Camere, tuttavia, ha impedito la conclusione del procedimento legislativo, inducendo il nuovo governo a intervenire con il decreto legge n. 162/2022 che, di fatto, riproduce sia pure con alcune modifiche il testo del disegno di legge rimasto sospeso nella precedente legislatura, riformando l’art. 4 bis.
In particolare, la nuova disciplina trasforma da assoluta in relativa la presunzione di pericolosità ostativa, consentendo anche ai detenuti non collaboranti l’accesso ai benefici e alle misure alternative purché questi dimostrino di aver adempiuto al risarcimento dei danni provocati e di aver reciso i collegamenti con la criminalità organizzata, secondo valutazioni rimesse al giudice. Ecco dunque il motivo che ha indotto la Corte costituzionale a restituire gli atti alla Cassazione rimettente, alla quale è ora rimessa la valutazione della portata applicativa della sopravvenienza normativa nel giudizio da cui è partito il dubbio di costituzionalità. In attesa di tale decisione, non si può fare a meno di rilevare la singolare scelta dello strumento del decreto-legge per evitare lo scadere del termine fissato dalla Corte. Il governo ha invero espressamente indicato tra i motivi di necessità e urgenza i moniti che il giudice delle leggi aveva rivolto al Parlamento e l’intenzione di anticipare la decisione che il giudice costituzionale avrebbe adottato in assenza di un intervento del legislatore. Se da un lato ciò indica il segnale positivo di una politica che non ha rinunciato alla sua decisione, dall’altro ancora una volta si scorge la preoccupante difficoltà decisionale del Parlamento, sulla quale una seria riflessione non è più rimandabile.