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di Francesca Caferri

La Repubblica, 6 novembre 2022

Oggi al via l’incontro di Sharm el Sheik sul clima. La preoccupazione delle sorelle di Alaa Abdel Fatah, che da una settimana non assume più le 100 calorie al giorno che consentivano la sopravvivenza: “È uno scheletro, solo pelle e ossa”.

Un fantasma si aggira sui lavori della Cop27, la conferenza internazionale sul clima che si apre oggi a Sharm el Sheik, in Egitto. Alaa Abdel Fatah è “uno scheletro, solo pelle e ossa”, secondo le parole della sorella alla conclusione dell’ultima visita in carcere: e dopo la situazione è peggiorata ulteriormente. Il più importane attivista egiziano è in sciopero della fame da 215 giorni: da una settimana non assume più le 100 calorie al giorno che gli hanno fin qui consentito di sopravvivere. Da oggi, giorno di apertura della conferenza, rifiuterà anche di assumere liquidi, arrivando alla più estrema delle forme di protesta.

Abdel Fatah manifesta in questa maniera contro le condizioni in cui vivono migliaia di detenuti nelle carceri egiziane: privati del diritto di comunicare con famiglie e avvocati, ammassati in celle con condizioni igieniche insostenibili, senza la possibilità di accedere a libri o materiale per scrivere, né di uscire per prendere aria. “Combatte con l’unica arma che gli è rimasta, il suo corpo”, hanno detto le sorelle, Mona e Sanaa, nella conferenza stampa che hanno tenuto a Londra due giorni fa. Una lotta che lo ha trasformato in un’icona per l’intero mondo arabo, e non solo.

Perciò il destino di questo ingegnere quarantenne, blogger, anima e cervello della rivoluzione del 2011 in piazza Tahrir, padre di un bambino di dieci anni afflitto da una forma di autismo, non riguarda solo la sua famiglia. Da mesi, il governo britannico fa pressione su al Sisi per ottenere la liberazione dell’attivista, che ha doppia cittadinanza, egiziana e britannica appunto: ma gli appelli personali di Boris Johnson prima e di Liz Truss dopo non sono riusciti a smuovere il presidente egiziano. Insieme a loro, oltre alle maggiori organizzazioni per i diritti umani di tutto il mondo, si sono mosse decine di deputati e senatori americani, il governo tedesco e quelli di altri Paesi del Nord. Due giorni fa quindici premi Nobel per la pace hanno scritto un appello ai leader mondiali perché chiedano la libertà di Abdel Fatah nei discorsi che pronunceranno a Sharm. A inizio settimana, al sit in di Sanaa Seif di fronte al Foreign Office di Londra, è arrivata Greta Thunberg, che proprio lì ha sottolineato l’impossibilità per gli attivisti di tutto il mondo di prendere parte alla conferenza di fronte alle continue violazioni dei diritti umani di cui è responsabile il governo egiziano.

Per quanto non ci siano reazioni ufficiali a questi appelli - nei mesi scorsi il Dipartimento di Stato Usa si era detto “estremamente deluso” dall’ultima condanna imposta dai giudici all’attivista, cinque anni per “diffusione di notizie false” - è ben chiaro nelle cancellerie occidentali che se Abdel Fatah morisse i lavori della conferenza potrebbero esserne gravemente danneggiati, se non saltare del tutto. Troppo pesante è la storia di quest’uomo che sul suo corpo ha scelto di riassumere l’ingiustizia a cui sono sottoposti i più di 60mila detenuti politici incarcerati in Egitto, troppo forte l’impronta che il suo pensiero ha lasciato sulla generazione araba che ha vissuto le rivoluzioni del 2011 e che ancora oggi continua ad auspicare un futuro diverso per la regione . “Abbiamo paura che muoia. Lui stesso ci sta preparando alla sua morte. Ma lui e noi andiamo avanti sapendo che Alaa ha già vinto la sua battaglia, a prescindere da come finirà”, fa sapere da Londra la sorella Mona.