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di Marzia Amaranto

Il Riformista, 28 dicembre 2023

Sullo sfondo c’è anche la costante condizione di sovraffollamento. Non va dimenticato che servono vere opportunità di reintegrazione nella società al termine della pena. Le festività e in particolare quelle natalizie, per i detenuti in carcere accentuano inevitabilmente il senso di solitudine e lontananza dalle famiglie, nella più totale assenza di attività mirate alla rieducazione e il reinserimento in società. Ebbene a causa delle ferie del personale già sotto organico durante l’anno e della sospensione di corsi scolastici e attività lavorative, la vita in cella diventa insopportabile e fatta di malattie, debolezze, emarginazione e dolore.

Negli istituti penitenziari italiani i detenuti che si tolgono la vita hanno una frequenza di 19 volte maggiore rispetto alle persone libere e questo purtroppo accade nelle carceri dove le condizioni di vita sono peggiori, con strutture particolarmente fatiscenti e poche attività riabilitative. A supplire, seppure in minima parte a questo dramma sono i volontari del Terzo settore, della Chiesa, le comunità come Santo Egidio e l’ONG Nessuno Tocchi Caino.

Ed è proprio con l’avvicinarsi delle festività che spietatamente torna l’appuntamento con la morte, con 68 suicidi in carcere dall’inizio dell’anno, l’Italia è sempre più vicina all’amaro record risalente al 2022 con 84 casi. La decisione di porre fine alla propria vita da parte di detenuti non può risolversi semplicemente come mero risultato di dolorosi percorsi personali, ma rappresenta un vero e proprio fallimento per lo Stato e le sue istituzioni, che privando la persona della libertà e assumendosi l’obbligo di garantire una vita dignitosa e di salute, finanche in costanza di detenzione, non sono state in grado di comprendere il disagio profondo, privando del necessario supporto. Nel campo della prevenzione manca un’attenta analisi sui trascorsi delle persone che si sono suicidate.

Accomuna certamente la mancanza di prospettive - seppure con situazioni diverse tra loro - di riottenere la dignità persa, l’impossibilità di liberarsi del “marchio” di condannato. Nessuna prospettiva durante il tempo della detenzione, trascorso lentamente in attesa del fine pena. Nessuna prospettiva di tornare a vivere una vita normale, per chi si è trovato nella situazione di dover entrare ed uscire troppe volte dal carcere e vive la condanna anche in libertà, di una vita ai margini della società, fatta di solitudine e sofferenza psicofisica. Un suicidio in istituto penitenziario non è affatto una vicenda privata o circoscritta ad un problema del singolo carcere, ma è un evento di rilevanza sociale e politica, riguardo al quale l’intera società deve necessariamente interrogarsi, sulle cause e sulle possibili misure di contrasto da adottare.

Non vi sono tracce di dubbi che tra i motivi vada annoverata sin anche la costante condizione di sovraffollamento carcerario, con un tasso medio di sovraffollamento calcolato del 120% e con punte drammatiche del 160% in Puglia. Purtroppo nessun miglioramento appare all’orizzonte, cadendo nel dimenticatoio di chissà quale cassetto persino la proposta di legge d’iniziativa del deputato Roberto Giachetti, presentata il 7 settembre 2020 e riguardante la detrazione di pena ai fini della liberazione anticipata, pari a settantacinque giorni per ogni semestre di pena scontata. Eppure il trattamento disumano e degradante in carcere si potrebbe evitare garantendo la superficie di tre metri quadrati per detenuto, evitando violazioni così clamorose.

Colpisce la decisione presa dal magistrato di sorveglianza di Reggio Emilia a seguito di diversi solleciti presentati dal difensore a partire dal 2017, sulle condizioni disumane e degradanti subite durante la detenzione di Alfonso Iacolare, conosciuto come il ras dei Casalesi e il riconoscimento di 157 giorni di sconto di pena. Istanza del difensore che ha evidenziato con dati alla mano le carenze e difficoltà delle carceri di Santa Maria Capua Vetere e di Ancona.

Centrate le problematiche non è così difficoltoso comprendere quali possono essere le strade praticabili per poter ridurre al minimo il rischio che un detenuto si possa privare della vita, nella pur sempre consapevolezza che tante situazioni personali possano sfuggire ad ogni tentativo di comprensione. Il primo punto è la imprescindibile tutela della dignità sociale di chi si trova in carcere in attesa di processo. Oggi basta un avviso di garanzia per indagini in corso per far partire lo show mediatico e far dimenticare il principio della presunzione d’innocenza, con un certo protagonismo di alcuni rappresentanti delle forze dell’ordine e dei giudici inquirenti, che ravvisano il momento giusto per annunciare i “successi” nella lotta alla criminalità, salvo poi giungere a sentenza di assoluzione dopo anni di processi. Il secondo punto riguarda la “qualità della pena”, il sovraffollamento e la mancanza di operatori non devono diventare il pretesto per bloccare l’attivazione di laboratori e corsi di formazione. E infine l’ultimo ma non meno importante punto sono le vere opportunità di reintegrazione nella società al termine della pena.