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di Alberto Cisterna

L’unità, 10 settembre 2023

La minaccia della pena non realizza alcuna dissuasione. È una società, la nostra, che ha bisogno di rifondare il patto sociale che la costituisce. È chiaro che le opzioni sul campo sono poche. Una politica che voglia mitigare le preoccupazioni - se non le paure - dei cittadini di fronte alla violenza e all’insicurezza ha davvero scarsi mezzi a disposizione. Questa maggioranza, come altre in passato, ha scelto la via della repressione, del classico giro di vite anche verso i ragazzi. Magari fosse così verrebbe da dire, magari ci fosse una vera repressione, almeno si potrebbe vedere qualche risultato e qualcosa di più certo si potrebbe anche dire.

Ma ormai - almeno dal 2008 in poi - la politica si è acquartierata nel recinto della sola minaccia della repressione; una minaccia spuntata, irrisa, inutile, manifestazione essa stessa dell’incapacità di porre soluzione alle incertezze più profonde della società. L’apparato statale offre l’immagine pericolante di un erogatore di servizi di pessima qualità (sanità, trasporti, scuola, giustizia, ma non solo), di prodigo distributore di denaro pubblico a pioggia senza una strategia di perequazione sociale. Una funzione statale degradata a questo livello genera anche una profonda disaffezione elettorale e crea un buco nero di disaffezione politica, amorfo, ondivago, capace di qualunque opzione, di alimentare qualsivoglia rigurgito, anche di acquistare a migliaia le copie del libro di un generale dell’esercito dalle idee bislacche. Il malgoverno di quella che potremmo definire genericamente la sicurezza urbana ha radici lontane, colpe sedimentate.

Delitti connessi alla circolazione stradale, risse giovanili, movide incontrollate, spaccio capillare delle droghe, occupazione abusiva degli spazi pubblici e delle abitazioni popolari, degrado ambientale, accattonaggio minorile, aggressioni a sfondo sessuale, persino i femminicidi nella loro tragica dimensione di solitudine e abbandono delle donne minacciate sono cresciuti senza che si avesse una percezione precisa di come risolvere le tensioni che generano questa magmatica agitazione sociale. Intanto tutto confluisce in un gigantesco calderone che sta rendendo le città invivibili, le periferie pericolose, le stazioni ferroviarie infrequentabili, i mezzi pubblici luoghi di scorrerie ladresche, le scuole spesso un parcheggio per studenti storditi da notti spese sui social o per le strade, gli stadi un terreno di scontro.

Per ciascuno di questi problemi la risposta in fin dei conti è sempre stata quella, la solita: un supplemento di repressione, la minaccia di pene esemplari, il tintinnio feroce delle misure di prevenzione, la sceneggiata delle perquisizioni a tappeto (quelle per blocchi di edifici, inventate dal ministro Cossiga in piena lotta al terrorismo), il solito Osservatorio presso il ministero dell’Interno. Nell’ultimo decreto il fenomeno da osservare è la “devianza minorile”. L’unica new entry è, da qualche tempo, il “commissario straordinario” - meglio se un militare o un poliziotto - soluzione che offre da sola la misura del fallimento delle amministrazioni pubbliche, della sterile sovrapposizione di competenze, della paralisi dell’inazione, dello scaricabarile.

Niente di nuovo verrebbe da dire, anche per l’ultima iniziativa titolata a Caivano. Ieri nello stato dell’Alabama un ragazzo di 14 anni è stato condannato all’ergastolo per avere sterminato la propria famiglia. Pena esemplare che farebbe la felicità di molti in questo momento in Italia e, invece, l’episodio rende palese e irrimediabile il macroscopico fallimento delle politiche repressive, ben al di là delle stragi compiute da minorenni in scuole e campus degli Usa. Sta emergendo una realtà drammatica, radicale, imprevista: la pena, la minaccia della pena non realizza alcuna dissuasione, non previene, non evita, non inibisce.

Delitti gravi, condotte assolutamente negligenti (sulle strade, per mare, sui luoghi di lavoro, persino sui binari di una ferrovia) sono consumate con assoluta disinvoltura, senza alcun freno, senza alcun calcolo per le conseguenze penali che potrebbero derivarne. È successo per ciascuno dei pezzi di quel puzzle in cui si scompone l’insicurezza collettiva in Italia. Dall’immigrazione clandestina alla violenza negli stadi, dalla guida stradale alla sicurezza sul lavoro, dallo sfruttamento dei caporali ai writer, dalle risse giovanili ai reati sessuali, da nessuna parte i proclami repressivi hanno conseguito risultati apprezzabili o hanno, per lo meno, mitigato la paura.

Le “grida” penali restano inefficaci, inascoltate. Poi, quando le vittime sono mietute, il sangue scorre, l’ingiustizia urla vendetta, la macchina penale interviene e si pretende che dispensi pene esemplari, castighi immani, chiuda le celle per sempre. Le vittime, le loro famiglie sono state, così, collocate al centro della comunicazione, della rappresentazione degli eventi tragici; sono lo schermo dietro cui si cela una politica inerme che non sa far altro che solidarizzare, gridare alla barbarie, invocare durezza, poiché semplicemente non riesce più nemmeno a immaginare come poter prevenire, impedire, custodire.

Il fallimento della scure repressiva è una questione particolarmente seria, perché è lo specchio del crescente sfaldamento della solidarietà sociale, dello sbriciolarsi dello spirito comunitario, dell’erosione dei valori fondanti la democrazia costituzionale. In una giungla le norme non esistono e l’unica legge è da sempre quella del più forte.

È una società, la nostra (ma non solo), che ha bisogno di ritrovare, rifondare il patto sociale che la costituisce avendo la percezione netta che la più simbolica asimmetria di potere, rappresentata dalla sanzione, ha smarrito ogni capacità performante, ha perso ogni efficacia deterrente. Nulla di diverso dal modello che a questa società offrono gli Stati in questo momento della storia, in cui sanzioni e restrizioni non inducono alla pace e la guerra regola i rapporti di forza tra le nazioni.