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di Vladimiro Zagrebelsky

La Stampa, 24 gennaio 2024

Si usa dire “fine vita”. Ma si discute di situazioni limitate, in cui ci si chiede se debba essere punito l’aiuto prestato a chi ha deciso di togliersi la vita. E poiché il suicidio è una libertà individuale, si tratta di due specifiche categorie di persone: coloro che hanno deciso di uccidersi ma non sono più in grado di farlo autonomamente e coloro che potrebbero farlo, ma vogliono evitare le forme violente, insicure, crudeli per sé e per i congiunti. Il codice penale puniva con pena detentiva chiunque avesse aiutato a realizzare la volontà di chi aveva deciso di por fine alla propria vita. Il tema era da tempo oggetto di dibattito. Nessuna nuova regolamentazione veniva però dal Parlamento, che lasciava in vigore il divieto puro e semplice, costringendo la persona “a subire un processo più lento, in ipotesi meno corrispondente alla propria visione della dignità nel morire e più carico di sofferenze per le persone che gli sono care”. Così si espresse la Corte costituzionale, investita da una questione di costituzionalità, indicando al Parlamento nel 2018 le condizioni che, secondo Costituzione, avrebbero dovuto guidarlo nel definire una nuova legge. Ma il Parlamento - come sempre più frequentemente accade - non ha provveduto e la Corte ha ritenuto di dover essa stessa intervenire per interrompere il perdurare di una situazione incostituzionale.

La Corte, con la sua sentenza del 2019 ha dettato rigorose condizioni per la non punibilità di chi aiuta il suicida: che si tratti di persona capace di decisioni libere e consapevoli, affetta da patologia irreversibile, fonte di intollerabili sofferenze, aggiungendo che essa deve essere “tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale”. Che cosa siano tali trattamenti è dubbio (solo macchinari per respirazione, idratazione e alimentazione? O anche farmaci e assistenza medica?). Inoltre sembra irragionevole imporre quella condizione di fronte alla estrema varietà delle situazioni, già presenti o anche temute come svolgimento ineluttabile della malattia. La sentenza indica anche che la procedura deve essere svolta nell’ambito del Servizio sanitario nazionale (che quindi è tenuto ad assicurare la prestazione). Per questo e per altri aspetti, la Corte con la sua sentenza ha anche richiesto al Parlamento di intervenire con legge. Ma anche questa volta il Parlamento non ha provveduto. La sua marginalizzazione, da centro costituzionale della attività legislativa, dipende da vari fattori e attori, ma in questo caso è lo stesso Parlamento a mostrarsi impotente, incapace, creatore di gravi problemi istituzionali, sociali, umani.

Il quadro delineato dalla sentenza della Corte costituzionale, nonostante il dettaglio delle previsioni ed anzi proprio per questo, è difficilmente operativo. Alla persona che ha deciso di morire - nelle gravi condizioni in cui normalmente si trova - si impone l’onere di ricorrere perfino al Tribunale per imporre agli uffici regionali e ospedalieri di provvedere, poiché il Ssn opera a livello regionale. Non solo, ma la nuova legge, la cui necessità è stata indicata dalla Corte costituzionale, oltre ad aspetti strettamente operativi che possono rientrare anche nella competenza regionale, potrebbe riguardare altresì importanti aspetti di altra natura, come le procedure di accertamento della libertà e piena consapevolezza della volontà del paziente e l’effettività dell’offerta delle cure palliative.

Nel frattempo, si sviluppa l’azione di gruppi contrari alla possibilità stessa di ammettere che non venga punito chi aiuta il suicida: anche contro ciò che deriva dalla Costituzione a garanzia di ciascuno. Di questo infatti si tratta, come è emerso chiaramente dalla discussione che ha accompagnato il rigetto da parte del Consiglio regionale del Veneto di una proposta di iniziativa popolare (promossa dalla Associazione Luca Coscioni) di regolamentazione di tempi e modi dell’agire dei vari uffici per dare esecuzione a ciò che la Corte costituzionale ha deciso. Chi ha votato contro ha motivato richiamando la propria concezione della tutela della vita. Negletto è invece risultato l’argomento di giuridico che riguardava il quesito sulla competenza regionale o statale della disciplina proposta. Meglio presentare slogan più efficaci!

Intanto mostra la sua problematicità la soluzione che la Corte costituzionale ha ritenuto di poter adottare per rimuovere la incostituzionalità che il Parlamento continua ad ignorare. La paralisi derivante dall’inerzia del Parlamento e superata (in parte) dall’intervento di una Corte costituzionale che è istituita semplicemente per giudicare della legittimità delle leggi, mostra ora limiti e distorsioni dell’impianto fondamentale della Costituzione. Nel caso specifico la condizione dell’attualità di trattamenti di sostegno vitale è criticabile sul piano della ragionevolezza. Ed è questa in sostanza la questione di costituzionalità che il Tribunale di Firenze pone ora alla stessa Corte costituzionale. La quale è posta di fronte al paradosso di dover giudicare della costituzionalità di una normativa che essa stessa ha definito e imposto con una sentenza. Per sciogliere il problema si osserverà che la Corte deve valutare l’articolo 580 del codice penale “come modificato dalla sentenza 242/2019”, ma resterà comunque l’evidente forzatura del quadro costituzionale: una Corte costituzionale che legifera e dovrà poi giudicare la costituzionalità della “legge” che ha prodotto in luogo del Parlamento; un Consiglio regionale che rifiuta di predisporre le norme necessarie a dare esecuzione ad una sentenza della Corte costituzionale. E, all’origine di tutto, un Parlamento che rifiuta di adempiere al suo dovere.