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di Viviana Lanza

Il Dubbio, 2 luglio 2022

Intervista a Mariavaleria del Tufo, professoressa di Diritto penale all’università di Napoli Suor Orsola Benincasa. Giustizia, criticità, riforme, la minaccia del panpenalismo e la rotta del garantismo, il processo giusto e il processo mediatico. E poi gli scenari futuri e le nuove sfide come quella dei crimini internazionali.

Ne parliamo partendo proprio dai nuovi scenari internazionali visto che la professoressa è tra i componenti della Commissione sui crimini internazionali istituita dalla ministra della Giustizia, Marta Cartabia. Nei giorni scorsi la Commissione ha consegnato la relazione a conclusione dei lavori.

Professoressa, perché una Commissione sui crimini internazionali?

“Lo Statuto di Roma, firmato il 17 luglio 1998 e ratificato dall’Italia nel 1999, istituisce la Corte Penale internazionale - la prima giurisdizione penale internazionale a carattere generale e permanente - che può processare le persone fisiche sospettate di crimini di portata internazionale talmente gravi da minacciare la pace, la sicurezza e il benessere del mondo, quali l’aggressione da parte di uno Stato contro un altro Stato, il genocidio, i crimini contro l’umanità e l’apartheid, i crimini di guerra. Tali delitti, che riguardano l’insieme della comunità internazionale, non possono rimanere impuniti e la loro repressione deve essere efficacemente garantita a livello nazionale e internazionale. Ogni Stato Parte ha il dovere di esercitare la propria giurisdizione penale nei confronti dei responsabili: la Corte penale internazionale interviene soltanto qualora lo Stato, o per assenza di volontà o per effettiva incapacità, non si sia attivato per perseguire tali reati. Per farlo è però necessario che disponga di strumenti giuridici adeguati, di cui l’Italia è ancora priva. La Commissione ha lavorato perché questa lacuna potesse essere colmata”.

È stato proposto un codice...

“L’intero Progetto di Codice costituisce una innovazione particolarmente significativa per il nostro ordinamento. In Italia infatti non c’è un corpus organico che disciplini i crimini internazionali. E proprio per la gravità eccezionale dei fatti, per la necessità di costruire una normativa specifica e coesa e di dotarla di visibilità e forza simbolica, la ministra Cartabia ha preferito che per tali crimini venisse elaborato un Codice ad hoc. È una novità anche la terminologia adottata: la parola “crimine” non è utilizzata nel linguaggio penalistico, che conosce il sostantivo “reato”, tecnicamente comprensivo di “delitti” e “contravvenzioni”. Si è invece voluto riprendere il lessico dello Statuto e la Ministra ha richiesto la scrittura di un Codice di crimini internazionali, anche per sottolineare la specifica pregnanza della nuova disciplina. Ovviamente, con l’uso del termine “crimini” ci si riferisce ai delitti. La proposta di Codice dei crimini internazionali, se tradotta in legge, permetterà all’Italia di disporre di una serie di disposizioni penali, corrispondenti per la massima parte a quelle previste dallo Statuto, ma descritte con maggior precisione e munite delle relative sanzioni, che il giudice interno potrà applicare nei confronti delle persone riconosciute responsabili di crimini internazionali. Il Codice introduce anche una serie di norme di carattere generale che prospettano le regole da osservare in materia, ad esempio, di giurisdizione, di immunità, di responsabilità per ordine del superiore, di confisca ecc. Alcune scelte, come ad esempio quelle relative all’autorità giudiziaria chiamata a procedere per i crimini commessi da appartenenti alle forze armate italiane, o quelle attinenti all’inserimento della responsabilità degli enti, di carattere non soltanto tecnico, sono state rimesse a una decisione politica, ma anche per questi casi la Commissione ha presentato un articolato completo, sia pur alternativo, in grado di sostenere l’opzione ritenuta preferibile dal legislatore. Vorrei sottolineare come novità l’introduzione di una fattispecie di genocidio culturale, in base alla quale è punibile chiunque, per distruggere anche parzialmente un gruppo, metta in opera pratiche dirette a rimuoverne i caratteri identitari, ma anche le “nuove” previsioni dei crimini di aggressione e di apartheid”.

L’idea di una giustizia che vuole stare al passo con i tempi è positiva, ammesso che nei fatti si riesca a garantire una giustizia realmente giusta. Nel nostro Paese purtroppo non sempre è così e le criticità sono ancora molte, dalla durata del processo alle carceri sovraffollate, alla riforma mancata. Come si può sperare di migliorare la giustizia italiana?

“Il discorso sulla giustizia in senso ampio è veramente troppo complesso per poter essere sintetizzato in poche parole. Oggi i problemi da risolvere immediatamente, anche per rispettare le stringenti indicazioni europee, riguardano la numerosità e la lunghezza dei processi. Tuttavia è l’intera giustizia che dovrebbe essere riformata: e con ciò mi riferisco non soltanto al diritto penale sostanziale e al processo, ma all’intera organizzazione della macchina giudiziaria. Ci sono poi aspetti, quale il sovraffollamento delle carceri, che non possono aspettare oltre per trovare una soluzione, e vorrei soltanto ricordare che l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo per violazione dell’articolo 3 Cedu (divieto di tortura) proprio in riferimento a tale profilo, senza riuscire a tutt’oggi a provvedere in maniera adeguata. Ripensare il carcere è un obiettivo primario. In generale, lavorare per riforme di comparto non è un metodo soddisfacente in grado di assicurare una ristrutturazione organica del sistema o un profondo ripensamento dei paradigmi di intervento. In queste contingenze storiche e politiche è tuttavia difficile pensare a una possibile soluzione complessiva che richiederebbe tempo, una maggioranza politica ampia e coesa, con conseguente convergenza di obiettivi”.

Pensa anche lei che sarebbe necessaria una seria depenalizzazione? E per quali reati?

“La depenalizzazione sarebbe un’ottima strada, visto il numero di reati presenti nell’ordinamento. Già la “riserva di codice” prevista dall’articolo 3 bis del codice penale tende a una moral suasion nei confronti del legislatore rispetto all’introduzione nel sistema di nuove fattispecie di reato. Si potrebbe sicuramente procedere alla depenalizzazione per i reati di modesta entità, sanzionandoli in via amministrativa e lasciando al diritto penale soltanto la cognizione di fatti che per la loro gravità appaiano meritevoli di pena. Sarebbe tuttavia quanto mai opportuno non intervenire in maniera sporadica e contingente, come spesso è accaduto nel nostro Paese, ma di inserire tutto ciò in un quadro più generale, e organico, di intervento”.

Garantismo e giustizia: come superare il populismo giustizialista e il panpenalismo degli ultimi decenni?

“Populismo giustizialista e panpenalismo degli ultimi anni corrono sugli stessi binari, ponendosi come risposta all’allarme “percepito”, o fatto percepire al corpo sociale. Il diritto penale, da ultima ratio, da diritto penale estremo ma necessario per sanzionare fatti altrimenti ingestibili, viene così trasformato in primo strumento di intervento per reagire in modo del tutto irrazionale a bisogni indotti di rassicurazione, di individuazione di “bersagli da colpire”, di “colpevoli a tutti i costi”, di “capri espiatori”, tradendo completamente la sua funzione. Ciò ben si inserisce in un contesto di diritto penale “mediatico”, molto spesso esclusivamente simbolico, che ne favorisce un uso profondamente improprio: recuperare un sistema razionale di gestione dei problemi e dei bisogni sociali è compito arduo ma indispensabile per preservare ineludibili valori di civiltà ancor più in momenti, come quello che stiamo vivendo, di difficili transizioni”.