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di Donatella Stasio

La Stampa, 15 giugno 2023

Mauro Palma: “Troppo arbitrio nel respingere i migranti verso i Paesi definiti sicuri. Inefficaci i centri di rimpatrio, sbagliata la prigione per condanne inferiori a un anno”. “Solidarietà è una parola centrale nella Costituzione e nella Carta dei diritti Ue e non può significare equivalenza tra una somma da pagare e il diritto/dovere di proteggere chi fugge da conflitti, persecuzioni o comunque crisi, anche climatiche, del proprio paese”. Mauro Palma ha l’autorità, e soprattutto l’esperienza, per richiamare l’Europa al dovere di solidarietà nei giorni in cui prende forma il nuovo Patto su immigrazione e asilo che amplia l’ambito del respingimento e consente ai paesi Ue di sottrarsi al dovere di accoglienza pagando 20mila euro a migrante.

Da sette anni, Palma presiede l’Autorità indipendente che porta il nome di Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, riconosciuta in ambito Onu, e prima ha presieduto il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e quello per la cooperazione nell’esecuzione penale. Con questa storia alle spalle, il Garante dedica al nuovo Patto sui migranti un passaggio della relazione annuale al Parlamento, oggi alla Camera, di cui parliamo in questa intervista: un bilancio finale sui diritti delle persone vulnerabili - nelle carceri, nei servizi psichiatrici, nei centri per migranti e nelle residenze per anziani o disabili - visto che il mandato di Palma, Emilia Rossi e Daniela de Robert è in scadenza e il governo li sostituirà con una nuova terna.

Presidente, il Patto Ue consente di respingere i migranti, fin dalla frontiera, anche verso “paesi terzi sicuri”, indicati da ciascuno Stato in una lista. Le sembra una soluzione efficace e rispettosa dei diritti dei migranti?

“Il respingimento è sempre uno strumento molto debole rispetto alla tutela dei diritti delle persone, tanto più se non è verso il paese di origine ma verso un paese terzo, considerato sicuro non sulla base dei legami, familiari o affettivi, che la persona respinta può avere in quel luogo, ma di una lista predisposta da ciascun paese con propri criteri. Così la valutazione sulla sicurezza diventa politica e può essere centrata sui rapporti economici con quello Stato invece che sulla sua capacità di tutelare le persone e i loro diritti, come nel caso dei rimpatri in Egitto”.

E in Tunisia. Che non brilla per rispetto dello stato di diritto...

“L’Europa deve sviluppare un piano di interventi in Tunisia, e in generale in Africa, che rifletta un’effettiva politica e che non sia solo il corrispettivo di una funzione di controllo. Né può affidare il tema dei diritti al Fondo monetario internazionale, che ha una logica del tutto diversa. Il tema dei diritti dev’essere sempre un asse dell’Europa, così come già lo è verso alcuni paesi dell’Uee”.

Nel 2022, a fronte di 55.135 ingressi negli hotspot, i rimpatri sono stati 3.916, principalmente in Tunisia (2.308), Albania (518), Egitto (329), Marocco (187). Numeri piccoli rispetto alle intenzioni annunciate”...

“Gli accordi di riammissione sono pochi e quindi tanti paesi non si riprendono le persone; inoltre i costi sono molto alti: per le scorte, l’uso di mezzi, i biglietti aerei o l’affitto di voli charter. Ma il costo più alto è in termini di privazione della libertà perché, sempre nel 2022, 6.383 persone sono passate per i Centri di permanenza per i rimpatri ma solo la metà è stata rimpatriata; l’altra metà ci interroga su quanto sia stato legittimo quel trattenimento e, poi, su dove siano finite quelle persone. Dubito che abbiano ottemperato al foglio di via ricevuto dopo la permanenza nei Cpr”.

La cronaca ci dice che chi è privato della libertà a volte è vittima di una cultura violenta delle forze di polizia. Santa Maria Capua Vetere, Verona: immagini agghiaccianti. Com’è possibile, nonostante la Costituzione, le Carte sui diritti, la riforma della polizia, il reato di tortura, calpestare la dignità delle persone più vulnerabili, in un delirio di onnipotenza e di impunità?

“Negli ultimi decenni, le forze di polizia hanno fatto grandi passi avanti. Tuttavia, in alcuni settori si è insinuata sempre più una concezione della persona fermata, arrestata, detenuta come “nemico”, e non come persona, che, certo, ha commesso un reato e che perciò va custodita e assicurata alla giustizia, ma che va anche tutelata nei suoi diritti. Purtroppo questa cultura è assecondata dal discorso pubblico e dal linguaggio, talvolta anche istituzionale, basato sulla contrapposizione tra “noi” e “loro”. Ma non ci può essere simmetria, non sono due attori equivalenti: uno agisce in nome della legalità e della comunità, l’altro ha ferito l’una e l’altra, ma in quanto privato della libertà è in una posizione di maggiore vulnerabilità”.

Non le pesa come sconfitta delle istituzioni questo degrado culturale dello Stato che si trasforma in violenza e sangue?

“Ciò che mi pesa di più è vedere che molte istituzioni non colgono la drammaticità di questo degrado. A Santa Maria nessun operatore, che magari non era presente al momento delle botte ma era entrato in servizio al turno successivo, ha fatto una denuncia. E a Verona, la prima reazione di qualche istituzione è stata: cambiamo il reato di tortura”.

Arrivare al reato di tortura è stato faticoso e ora che i pestaggi escono dal sommerso si chiede di “tipizzarlo”, ovvero cambiarlo. Risultano forzature nell’applicazione pratica?

“Al momento non vedo forzature. Bisogna dare il tempo alla giurisprudenza di stabilire qual è l’area di applicazione del reato e la sua effettiva capacità deterrente. Quanto all’emersione dei pestaggi, vedo due dati positivi: la sempre crescente insofferenza da parte di poliziotti più giovani, anche con maggiore cultura, verso atteggiamenti di violenza; il crescente sviluppo di indagini interne da parte di settori specializzati dei vari corpi di polizia”.

Il 2022 è stato l’anno record dei suicidi in carcere, 85, e in questi sei mesi del 2023 siamo già a 30.

“Fermo restando che la decisione di mettere fine alla propria vita ha aspetti imperscrutabili che sempre meritano rispetto, va detto che se il discorso pubblico tende a descrivere il carcere come luogo di non ritorno, dove le persone devono marcire, questo può accrescere l’angoscia di chi ci finisce dentro”.

Sette anni fa l’area del penale contava 98.854 persone, oggi 137.366 (di cui 57.350 in carcere); intanto gli omicidi volontari sono scesi del 25%, l’associazione mafiosa del 36%, le rapine del 33%. Cosa raccontano questi dati?

“Che stiamo affidando sempre più al penale la risoluzione di contraddizioni che dovrebbero trovare risposte nel territorio. Il diritto penale dovrebbe entrare in gioco solo in via sussidiaria mentre è il primo strumento usato per comporre i conflitti. Peraltro, le 80mila persone in misura alternativa dovrebbero essere seguite da personale specializzato e anche supportate con adeguate strutture. Ma dubito che questo avvenga”.

Aumentano i detenuti che scontano pene brevi o brevissime. Qual è il senso del carcere in questi casi?

“Nessuno. Avere in carcere 1.551 persone condannate a meno di un anno significa solo sottrarre loro del tempo di vita senza dare alcun significato a quella sottrazione: non potrà essere un tempo di rieducazione né funzionerà da deterrente perché la persona non cambierà e in più avrà lo stigma della detenzione. Quindi, la situazione che l’ha portata in carcere si ripeterà. Meglio pensare a strutture diverse, collegate al territorio, e lasciare il carcere ai reati più gravi”.

Lei propone di ripensare il carcere ostativo e il 41 bis - nati dopo le stragi mafiose degli anni 90 ma estesi poi ad altri reati - perché incompatibili con il mandato costituzionale della rieducazione del condannato...

“Terrei separati i due discorsi. Sull’ostatività: bisogna sempre tener fermo il principio che una pena deve prevedere la speranza della sua fine e ricordare che, nel caso di pene temporanee, tenere una persona chiusa fino all’ultimo giorno senza mai sperimentarne la capacità di reinserimento diminuisce la sicurezza collettiva. Quanto al 41 bis, ritengo doveroso e necessario un regime che impedisca la comunicazione con l’esterno, ma le regole di questo regime speciale devono essere sempre sottoposte a un vaglio scrupoloso di necessità, proporzionalità e razionalità”.