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di Fulvio Fulvi

Avvenire, 18 agosto 2023

Parla Giorgio Pieri, coordinatore nazionale delle Comunità Educanti per i Carcerati. Diecimila detenuti in più rispetto ai posti disponibili per regolamento e un sovraffollamento pari al 121%. Celle riempite fino all’inverosimile alle quali corrispondono giornate “vuote” da colmare con “qualcosa da fare” per ognuno dei 57mila reclusi che occupano le 189 carceri italiane. L’attività, il lavoro, la vicinanza umana, dentro e fuori dalle strutture penitenziarie sono le uniche risposte possibili a quel buio della disperazione che rischia di condurre al suicidio, ad atti di autolesionismo o a violenze contro gli altri.

Un tedium vitae che annienta del tutto l’autostima e può far uscire chi ha scontato una pena peggiore di come era prima. Commettendo nuovi reati. Ma “l’uomo non è il suo errore” sosteneva don Oreste Benzi che in nome di questa certezza già sperimentata decise di fondare nel 2004 a Rimini la casa “Madre del Perdono”, la prima delle Comunità Educanti per i Carcerati (Cec) gestite dall’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, un’“esperienza” che negli ultimi dieci anni ha accolto 1.865 persone e oggi coinvolge 241 tra reclusi a cui è stata applicata la misura alternativa alla detenzione o “ex” che hanno finito di scontare la pena e lavorano, dopo aver seguito i percorsi educativi e formativi proposti in una delle undici strutture della rete, presenti in Romagna, ma anche nelle province di Cuneo, Massa Carrara, Chieti e Campobasso.

“Qui da noi la recidiva è ridotta al 12-15% rispetto alla media nazionale, che è del 75%” afferma Giorgio Pieri, coordinatore nazionale Cec. “Ma va detto che i nostri sono luoghi dove la pena viene espiata - precisa - e dai quali non si può uscire se non accompagnati dai carabinieri: chi ha sbagliato deve pagare ma al principio della “certezza della pena” deve essere sempre associato quello della “certezza del recupero”.

Ci vogliono anni, però, per conoscere veramente una persona e, trattandosi di chi ha commesso reati anche gravi, di soggetti fragili e sofferenti, è ancora più difficile promuoverne la redenzione umana, presupposto indispensabile di un reinserimento sociale stabile e duraturo.

E voi come fate? Qual è il vostro metodo? “Ogni nostra casa, dove esiste un ambiente di tipo familiare, vede come protagonisti gli operatori che affiancano le persone che hanno sbagliato, i “recuperanti” che partecipano alla loro formazione valoriale e religiosa, e i volontari esterni, appositamente formati, che li aiutano nelle diverse attività, instaurano con loro relazioni di amicizia e dialogo in un rapporto individuale e di gruppo” spiega il responsabile Cec.

“Ma il punto di partenza è sempre lo stesso per tutti quelli che vengono accolti: la consapevolezza che il male nasce dalle ferite del proprio cuore. E allora cerchiamo di capire cosa ha spinto la persona a compiere un reato, sapendo che la ferita “parla sempre” dentro una comunità, nel libero confronto con gli altri e questo comporta sempre un lavoro su di sé”.

In tanti sono cambiati, hanno trovato un’amicizia vera, e sono rimasti qui a lavorare, in uno dei laboratori artigianali, aziende agricole, cooperative sociali, collegate alle Comunità. Tra loro c’è Gustavo, 42 anni, di Riccione, finito dentro per aver malmenato più volte la moglie, anche di fronte ai figli. “All’inizio diceva che lui il carcere, anche se aveva sbagliato, non se lo meritava proprio, ma quando ha ascoltato l’esperienza di altri compagni che dicevano di aver picchiato i figli si è ricordato del padre dal quale aveva imparato solo il linguaggio della violenza, l’unico che conosceva, e piano piano si è ricordato di essere stato lui stesso oggetto di maltrattamenti. Per questo a 13 anni andò via da casa e usò lo stesso metodo con la sua donna” racconta Pieri.

Gustavo pensava a un certo punto di essere “un mostro” ma poi ha capito, usando misericordia verso i suoi compagni, che poteva farcela anche lui. Dopo un percorso di cinque anni adesso lavora a fianco di un ragazzo disabile e si è rappacificato con la moglie e con il mondo. “t contento, si sente realizzato”.

Come Nicola, 61 anni, siciliano di Favara, condannato per aver strangolato la moglie che lo voleva lasciare. Lui era l’amministratore di una ditta, i due avevano adottato una bimba. Stavano bene economicamente. Ma all’improvviso gli crolla il mondo addosso e reagisce nel modo più impensabile e orrendo. Finisce in galera, poi all’ospedale psichiatrico e infine nella Comunità di Rimini, dove percorre tutte le fasi. Anche in questo caso viene fuori una storia di violenze e soprusi subiti ad opera di un genitore negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza. “E adesso Nicola lavora con noi, consapevole di quello che è stato e di quello che è”. Karim, 30enne tunisino e musulmano, di anni dentro ne ha fatti nove: aveva cominciato da ragazzo a rubare, poi è passato alle rapine a mano armata.

In carcere a Forlì gli avevano consigliato di battezzarsi e diventare cattolico. “t venuto qui e gli abbiamo detto che no, doveva rimanere quello che è - spiega Pieri - perché il problema era quello che c’era dentro il suo cuore, e anche in questo caso ritrattava di abusi sessuali subiti in famiglia, dalla madre, di una violenza “imparata” a casa e non riconosciuta, né ammessa, di un abbandono, fino a quando Kerim ha ascoltato storie come la sua e ha capito”.

Anche lui ora lavora a fianco di un disabile con l’associazione “Papa Giovanni XXIII”: Ma ci sono anche detenuti che preferiscono rimanere “al fresco” piuttosto che affrontare la fatica di un percorso di crescita personale. “Si tratta del 2/3 % - dice Pieri -, rinunciano a queste opportunità di riscatto per stare in brandina, pagati dallo Stato e senza far niente”.

Comunque, finora, aldilà dei proclami - conclude - non sono previsti finanziamenti pubblici per opere educative, di recupero delle persone detenute e di incremento della sicurezza pubblica, perciò il progetto Cec e le spese correlate sono quasi completamente a carico dell’associazione”.