sito

storico

Archivio storico

                   5permille

   

di Marianna Filandri

La Stampa, 3 luglio 2023

L’occupazione è cresciuta. A maggio 2023 sono circa 23,5 milioni gli occupati nel nostro paese con un aumento di 21 mila lavoratrici e lavoratori. La premier Meloni ha commentato questo dato come incoraggiante, risultato del lavoro del governo. Effettivamente è un dato positivo: il lavoro è un diritto fondamentale e un bene per l’individuo. Viene considerato un bisogno primario che soddisfa non solo la necessita di reddito e sicurezza economica, ma concerne anche più complessi bisogni di tipo personale, sociale e simbolico. Inoltre, l’occupazione contribuisce in molti modi al benessere collettivo. Le implicazioni economiche e morali che la questione del lavoro comporta nella vita sociale hanno portato a definire la disoccupazione come una calamità sociale, soprattutto per i più giovani. Dunque, tutti contenti. In realtà sarebbe opportuna una certa cautela per almeno due ragioni.

La prima è che l’aumento degli occupati non significa che il problema della mancanza di lavoro sia stato superato. Secondo Istat, sempre nel mese maggio ci sono stati oltre 1,9 milioni di individui che pur cercando lavoro non lo hanno trovano. A questi si affiancano 12,5 milioni di inattivi, con un dato particolarmente drammatico per i giovani che rappresentano la fascia di età con maggiore probabilità di non essere occupata.

La seconda è che l’occupazione non può essere analizzata solo in termini quantitativi. Più lavoro sì, ma di qualità. Non tutti i lavori infatti sono buoni. Quali non lo sono? Certamente quelli che non consentono di pagare ciò che è indispensabile per vivere. Anche senza entrare nel merito dei contenuti e della modalità di svolgimento dell’occupazione ma limitandoci alla dimensione materiale, ci sono lavori per i quali il salario, l’orario e il contratto non consentono di uscire da una condizione di indigenza. Si è occupati ma si è poveri. Il fenomeno della povertà da lavoro è molto diffuso in Italia e riguarda un lavoratore ogni otto, i cosiddetti working poor. Le cause di questa condizione sono diverse e tutte rilevanti. Nel dibattito attuale ha però un peso cruciale il basso salario. Una gran parte degli occupati poveri è infatti poco retribuito. Come è definito il basso salario? In vari modi. I due principali considerano i salari sotto a una soglia - solitamente il 60% della media - della retribuzione annua o del salario orario. Secondo l’ultimo rapporto Istat all’inizio dello scorso anno, nel primo caso si contavano circa 4 milioni di occupati a basso salario annuo con una retribuzione inferiore al valore di 12 mila euro, pari a poco meno del 30% dei dipendenti. Considerando la retribuzione oraria erano invece 1,3 milioni gli occupati, circa il 9,4% con retribuzione inferiore a 8,4 euro l’ora.

Questo tema è particolarmente rilevante per la recente proposta di introduzione di una soglia di 9 euro all’ora presentata dalle forze di opposizione. Questa cifra, se fosse approvata, rappresenterebbe il salario minimo legale e riguarderebbe non solo gli occupati senza contratti collettivi di lavoro, ma tutti gli occupati. Soprattutto sancirebbe chiaramente il principio per cui chi lavora ha diritto a una retribuzione decente. Tuttavia, questa proposta è stata prontamente bocciata dalla ministra Calderone. Il governo sembra non interessato alle condizioni di lavoro della fascia più debole della popolazione. Ma se la disoccupazione è una calamità sociale, il lavoro povero non può essere tanto meglio.