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di Mario Di Vito

Il Manifesto, 18 ottobre 2023

“Il rischio di attentati è sempre costante. Bisogna capire che combattere questi fenomeni non è una questione di forza, ma di intelligenza investigativa”. Era l’aprile del 2001 quando Giuseppe Battarino, allora pm a Busto Arsizio, chiuse la sua inchiesta su un gruppo di jihadisti di stanza nell’hinterland milanese. Quattro gli arresti, con ipotesi di reato come l’arruolamento di mercenari. Ancora non esisteva la legge sul terrorismo internazionale e gli investigatori si muovevano in un territorio ignoto fatto di legami sottili e indagini che si muovevano in più paesi. Poi, dopo l’11 settembre, lo scenario cambiò radicalmente, nacque il concetto di guerra al terrorismo e le cose, in Italia come nel resto del mondo, presero una piega molto diversa. Meno inchieste e più guerra, almeno dal punto di vista di quello che si vede tutti i giorni. Perché poi il lavoro di intelligence è sempre andato avanti in maniera costante lontano dai riflettori.

Battarino, ha saputo dei due arresti per terrorismo a Milano?

Sì, ho letto le notizie e noto che si fa un grande uso di una terminologia bellicista, diciamo: si parla di blitz, di operazione… In realtà dobbiamo dire che quello che è accaduto a Milano è l’esecuzione dell’ordinanza del Gip Fabrizio Filice, peraltro persona molto apprezzata e preparata. Bisogna fare attenzione a quelli che sono i fatti e distinguerli dalla loro rappresentazione mediatica.

Dalla sua inchiesta sono passati oltre vent’anni. Eppure la sensazione è che il dibattito sul terrorismo sia sempre lo stesso. Non è cambiato niente?

Progressivamente il terrorismo è diventato una questione geopolitica, che dunque non si può affrontare solo con gli strumenti giudiziari. Già nel 2001 sentivo negli investigatori statunitensi con i quali ci rapportavamo una sorta di necessità a raffigurare un nemico. Il che, però, con queste organizzazioni è molto difficile, perché hanno un carattere decisamente informale.

Come andò nel 2001?

L’elemento fondamentale fu il coordinamento europeo: lavoravano procure di cinque paesi diversi e, come ho detto, ci rapportavamo anche con gli Stati Uniti. Decisivo fu anche Giancarlo Caselli, che ai tempi dirigeva Eurojust. Devo dire che lui fu forse il primo ad accorgersi che si stava muovendo qualcosa e si mise a disposizione dando grande supporto a quell’indagine. Avevamo notato un certo numero di movimenti. Non c’era internet, dunque era tutto più difficile. Poi avevamo il problema di individuare un reato. Alla fine l’intuizione fu di ipotizzare il reclutamento di mercenari: questa tesi ha retto poi per tutti i gradi di giudizio.

Ha visto che c’è stato anche un attentato a Bruxelles. Lei ha conosciuto bene gli investigatori belgi...

È passato un po’ di tempo. Vent’anni fa erano molto sorpresi, adesso credo non lo siano più e che anzi siano molto preparati. E parlo anche al di là dell’ultimo attentato, un evento imprevedibile opera in sostanza di un cane sciolto.

Però si fa un gran parlare di allarmi e, dicevamo, si usano toni da guerra per raccontare queste vicende...

Credo che una critica alla narrazione vada fatta, in effetti. Nell’ultimo ventennio, in realtà, abbiamo avuto un lavoro di intelligence che è stato costante e utile. Enfatizzare le vicende giudiziarie è, al contrario, inutile: la prevenzione funziona quando non si vede. Il vero tema infatti non è l’occasionale intervento giudiziario, ma il costante lavoro di prevenzione che viene fatto.

Che risvolti vede adesso?

C’è tutto il discorso geopolitico che non possiamo ignorare e che può produrre singoli atti, singole azioni, singoli attentati. Questo rischio è costante. In questi giorni siamo tutti molto colpiti dagli attentati di Hamas, ed è normale che sia così, ma porre troppa enfasi qui è controproducente. Bisogna capire che combattere questi fenomeni non è una questione di forza, ma di intelligenza investigativa.