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di Giuseppe Salvaggiulo

La Stampa, 19 ottobre 2022

“L’unità delle carriere tra magistrati giudicanti e requirenti è una delle patologie del nostro sistema penale”. Come da ogni altra “malattia”, anche da questa “emergono tutte le altre disfunzioni collaterali di un codice ormai decrepito: l’obbligatorietà dell’azione penale, l’abuso della custodia cautelare, l’autoreferenzialità e irresponsabilità dei magistrati, via via fino alla chiusa obbligatoria della lentezza dei processi”. Nel giorno in cui Carlo Nordio viene designato da Giorgia Meloni ministro della Giustizia, il suo pensiero sulla giustizia viene stampato nella prefazione al libro “Non diamoci del tu. La separazione delle carriere” scritto da Giuseppe Benedetto, presidente della fondazione Luigi Einaudi, e pubblicato (nella collana “Problemi aperti”) dall’editore Rubbettino. Ecco dunque il Nordio-pensiero.

La carriera dei magistrati - “È davvero il pm una parte imparziale? Ed è per questo che, come si legge nell’articolo 358 del codice di procedura penale, svolge altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore dell’indagato? L’autore del libro definisce la norma la quintessenza del fariseismo. È vero. (…) In effetti i pm raramente vanno a cercare le prove a discolpa del sospettato, e talvolta fanno il contrario, al punto da occultare queste prove. L’esempio più recente è emerso a Milano, dove il tribunale ha bacchettato aspramente la Procura per non aver depositato atti favorevoli all’imputato”.

In realtà, argomenta Nordio citando la “teoria della falsificazione che è stata forse il risultato più rivoluzionario dell’epistemologia contemporanea”, la norma che impone al pm di cercare prove a favore dell’imputato altro non è che “un tranello verbale”. In realtà il pm cerca solo riscontri alle sue ipotesi di accusa, “così evapora anche il concetto ambiguo di parte imparziale. Il pm è parte, perché assume l’iniziativa di indagine, e rimane tale, senza diventare imparziale come il giudice, perché la ricerca della smentita degli indizi accusatori non è altro che lo strumento dialettico per la loro conferma”.

Il codice e la Costituzione - Nordio attribuisce al libro “il grande merito di aver finalmente rilevato le contraddizioni di un codice tendenzialmente liberale ma pesantemente ipotecato da un retaggio autoritario, che risiede non solo nella mentalità di molti magistrati, ma altresì nella stessa Costituzione cui intendeva adeguarsi. Perché, paradossalmente, è stata proprio quest’ultima a recepire molti principi del codice voluto da Rocco e da Mussolini”.

L’unicità della carriera dei magistrati è appunto “uno degli elementi di politica e tecnica giudiziaria tipici del sistema inquisitorio”, come del resto “l’obbligatorietà e l’irretrattabilità dell’azione penale, l’identità tra il giudice del fatto e quello del diritto, tra il verdetto e la sentenza, e tanti “idola” duri a sparire, come la possibilità di impugnazione di una sentenza di proscioglimento, e magari l’irrogazione dell’ergastolo senza neanche l’intervento di nuove prove”.

La Corte Costituzionale - Per dimostrare la tesi del paradossale cortocircuito di una Costituzione democratica che adotta un modello giurisdizionale autoritario, Nordio focalizza il ruolo di Giuliano Vassalli. “Decorato della Resistenza e padre di questo codice di procedura penale (del 1989, ndr) asseritamente antiautoritario, una volta vestita la toga di giudice costituzionale, ha contribuito a demolire la sua creatura, rivelatasi incompatibile con la Carta fondamentale”. La copiosa giurisprudenza costituzionale sulla formazione, conservazione e utilizzazione della prova appare agli occhi di Nordio “una vera e propria retrocessione verso i principi dell’istruttoria scritta e segreta del codice Rocco” introdotto sotto il fascismo. Dunque “senza una radicale revisione costituzionale ogni altra legge ordinaria sarebbe inidonea”.

Il pubblico ministero - “L’aspetto più illogico e più allarmante” è che il pm è tutelato dalle stesse garanzie del giudice, “anche dopo l’immenso allargamento del potere conferito alle Procure proprio con il nuovo codice Vassalli. Perché il pm è diventato non più solo il monopolista, ma il dominus assoluto dell’indagine penale, con una discrezionalità che sconfina nell’arbitrio. Egli dirige la polizia giudiziaria, con tutto ciò che ne consegue, senza responsabilità e senza controlli. Un’anomalia intollerabile e irrazionale, aggravata, al limite della demenzialità, dal fatto che militando nello stesso sindacato, e operando nello stesso Csm, i pm che controllano la polizia condizionano in parte la giurisdizione”. Dunque la necessità di separare le carriere di pm e giudici non nasce dal desiderio di spezzare “un’intimità amicale”, ma dalla “perniciosa integrazione professionale tra gli uni e gli altri, con l’effetto sbalorditivo che ai Consigli giudiziari e soprattutto al Csm ci si vota a vicenda. E anche prescindendo dagli intrallazzi correntizi e dalle baratterie di cariche emerse dai recenti scandali, la ragione si rifiuta di ammettere che il pubblico accusatore possa promuovere o bocciare un giudice davanti al quale, un attimo prima, ha perorato una tesi che magari gli è stata respinta”.

Le riforme - La chiosa della prefazione è dedicata al metodo per arrivare al traguardo della separazione delle carriere e del ridimensionamento dei pubblici ministeri. Quanto alle “apocalittiche obiezioni che l’Anm ci propina in occasione anche delle più moderate proposte riformatrici, come l’ultima della ministra Cartabia”, per “smentirle definitivamente” è sufficiente analizzare, come fa il libro, “i più importanti sistemi delle democrazie occidentali”. E per superare “le petulanti litanie di molte toghe”, Nordio ha le idee chiare: “Semmai la colpa è di chi chiede il loro parere. La lente deformante dei nostri pregiudizi, e soprattutto dei nostri interessi, ci fa veder le cose secondo la nostra convenienza. E chiedere a molti pm di rinunciare a questo immenso e incontrollato potere è come chiedere al tacchino di preparare il pranzo di Natale”.