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di Lucia Annunziata

La Stampa, 4 dicembre 2023

Lo scontro con Hamas ha mostrato le falle nella macchina bellica israeliana, già emerse contro Hezbollah. Lo Stato ebraico è ora ricco e hi-tech e i vicini arabi vogliono imitarlo: è questa la maggiore chance per la pace. Nel 59esimo giorno -16.000 palestinesi morti, di cui 5.600 bambini, secondo Hamas, e 1.200 morti Israeliani nell’attacco del 7 ottobre da parte di Hamas - la guerra di Gaza dopo la fine della tregua ha già un nome: “Fase Due”. La definizione indica che l’interruzione anche solo di pochi giorni ha cambiato alcune delle carte in tavola e che, dunque, occorreranno nuovi piani per fermare la guerra. L’idea di avere un’altra pausa - la seconda - sa molto di guerra “a singhiozzo”, il che coprirebbe di ridicolo sia i protagonisti del conflitto che i loro alleati. Stati Uniti da una parte e mondo arabo dall’altro.

Lo scambio e le ragioni per cui la tregua è stata interrotta, hanno rivelato i rapporti di forza in campo - Israele non ha recuperato con questa operazione le proprie divisioni interne, mentre Gaza e il West Bank si sono ricoperti di drappi verdi, simbolo di Hamas. La rottura delle trattative è stata preceduta in Israele da una continua frizione dentro il governo perché non si rinviasse troppo la sospensione della guerra; viceversa nel mondo palestinese anche la parte della popolazione sospettosa di Hamas non ha problemi a dire ora che solo questa organizzazione ha trovato modo “di svuotare le galere di Israele”. Una frase di ringraziamento che abbiamo sentito più volte sulle labbra degli scarcerati - che sono quasi tutti giovani in “detenzione amministrativa”, cioè prigionieri non incolpati di crimini gravi come l’assassinio, e la cui pena in galera è rinnovata, senza processo, ogni sei mesi.

La sensazione di forza e debolezza gioca dunque a favore di Hamas soprattutto perché l’organizzazione terrorista ha saputo mantenere in questa trattativa la conduzione del crudele gioco sugli ostaggi, sostenendo di non avere più altre donne e bambini, e rifiutando l’idea di rilasciare militari. Suggerendo così altri orribili scenari. La pausa dunque non ha portato a un ulteriore desiderio di pace. Anzi, stando ai pareri di testimoni, politici, diplomatici e commentatori, fra i due popoli è svanita anche quel minimo di fiducia che c’era, e non importa quanto scarsa fosse. Il corollario di queste considerazioni è che la prossima pausa dovrà essere l’inizio di un vero percorso, o nessuno sarà disponibile. Israele perché non può disperdere la dissuasione della forza, e Hamas perché non può perdere il vantaggio di chi guida il gioco.

Vista così la situazione appare disperata. Eppure, come sempre, le guerre si vincono o si perdono anche e proprio per le dinamiche di cambiamento che muovono. Sollevando lo sguardo da questo sfortunato quadrato di pochi chilometri, si vedono infatti altre tendenze in gioco. Che spacchettano differentemente i dilemmi dei due fronti. La superiorità militare di Israele, da sempre la sicurezza della sua esistenza in Medio Oriente, ha ricevuto in questo ultimo conflitto un grave colpo. Ma il processo di indebolimento militare è da anni in corso. La prima data risale al 2006, alla seconda avventura del governo di Gerusalemme in terra libanese contro Hezbollah, iniziata in maniera facile e finita dopo 34 giorni con una frettolosa ritirata. La rapidità salvò la vita dei soldati e la faccia della nazione, ma mise sul tavolo il logoramento del suo maggior potere. Netanyahu e i ministri della destra oltranzista sanno tutto questo. Il cambiamento non è necessariamente indebolimento, ma parte di un’evoluzione del Paese, che nei decenni scorsi ha cambiato profilo: da Stato sotto assedio a culla di un grande sviluppo hi-tech, di un forte arricchimento, e di una cultura molto integrata col resto del mondo. In altre parole, il raggiungimento di una quasi normalità, all’insegna di una forte dialettica politica, sia pur dentro il quadro di tensioni fisiologiche in Medio Oriente.

Anche Hamas che ora canta vittoria, non ha un percorso facile per diventare una forza politica di peso, legittimando il terrorismo come metodo. Su questa strada infatti dovrà misurarsi con soggetti molto più forti, i Paesi arabi, i grandi Stati le cui agende non sono più compatibili con i metodi di Hamas. Il caso più rilevante è quello dell’Arabia Saudita, che lavora indefessamente da anni ormai per poter essere legittimato come il più importante player della regione nelle relazioni internazionali. Bin Salman, sulla cui reputazione ci sono molte ombre, lavora con molta convinzione a costruire un indubbio successo, provato dalle speciali relazioni stabilite con Washington - in continuità fra Trump e Biden - e dalla sua indubbia capacità di esercitare il soft (ma in questo caso sarebbe meglio dire hard) power del denaro: dalle reti di lobbysti sviluppata, alle vittorie che infiammano il suo e gli altri popoli, quale la campagna di conquista nel territorio del calcio e - come Roma ha scoperto - in tutti gli altri campi, incluso l’expo 2030. Da anni l’Arabia Saudita ha anche un ottimo rapporto con Israele, basato su significativi scambi commerciali. In questa tregua ha giocato infatti un importante ruolo.

L’altro paese di peso dell’area, l’Iran, ha esso stesso una molto meno visibile ma altrettanto chiara relazione con i sauditi. I due colossi dell’estrazione petrolifera, rimangono feroci antagonisti, rappresentanti di due tradizioni religiose diverse del Corano, ma quella di oggi è soprattutto una frizione che ha a che fare proprio con il ruolo sulla scena globale. È chiaro proprio dalle dinamiche da cui è scaturito l’ultimo conflitto con Israele: la esclusione dagli accordi di Abramo ha causato molta preoccupazione a Teheran, e lo ha spinto quasi sicuramente ad aiutare il terrorismo di Hamas. Ma nello sviluppo della guerra, l’Iran ha tenuto fuori dalla rissa i suoi Hezbollah. Guadagnandosi con questa semplice operazione l’apertura di un forte credito con Washington e l’Occidente. Un credito che gli potrebbe valere in futuro anche sullo scenario della guerra in Ucraina, dove si è schierato al fianco di Putin. Nel caso di un accordo anche su questa guerra, l’Iran potrà dire di aver ottenuto molto con “solo” qualche stratagemma. Hamas ha ricevuto un messaggio forte e chiaro, e ai tavoli dei grandi forse in futuro il messaggio servirà.

Insomma, forse l’era del terrorismo (almeno quello mediorientale) visto su scala larga, potrebbe non essere più una opzione tanto utile. Nel mondo largo del turbocapitalismo, forse far esplodere bombe e uccidere innocenti potrebbe diventare meno importante del guadagnare molti soldi, e contare nelle decisioni globali. Una sorta di adeguamento delle nazioni all’etica pubblica dei grandi arricchimenti.

Queste ultime righe sono, come avrete capito, decisamente ironiche, ma non per questo sbagliate. Se è vero che siamo di fronte al disordine della fine della fine della Guerra fredda (finalmente la desiderata fine degli anni Sessanta), dobbiamo anche cominciare a immaginarci un mondo in cui anche la politica estera, e i desideri delle nazioni, cambiano motivazioni, e dunque azioni.