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di Davide Ferrario

Corriere della Sera - La Lettura, 18 febbraio 2024

Fine amore: mai” è un progetto cinematografico realizzato tra il 1999 e il 2000 nell’ambito del laboratorio di audiovisivi promosso e finanziato dalla Regione Lombardia presso il carcere di San Vittore a Milano. Fu sceneggiato, filmato e montato dal gruppo di lavoro della Sezione Penale a cui il laboratorio era destinato; dopo quell’esperienza, finita la pena, un paio di iscritti trovarono lavoro presso televisioni locali. “Fine amore: mai” si può vedere in rete su https://vimeo.com/912357679

La prima volta che misi piede in carcere come volontario, 25 anni fa, fu per un laboratorio audiovisivo che si teneva a San Vittore, ai tempi dell’illuminata direzione di Luigi Pagano. Nell’istituto c’erano sia un paio di telecamere semiprofessionali che una stazione di montaggio e, dopo qualche lezione teorica, proposi ai detenuti del gruppo (erano una ventina del Penale) di realizzare un film sul tema che preferivano; per quanto, inevitabilmente, di documentazione carceraria. Non ci furono dubbi: per tutti era la questione dell’”affettività”, termine educato per indicare tutto quello che ruota intorno al rapporto tra i sessi, dall’amore all’erotismo.

Sì, perché una volta “dentro”, quella è una parte della vita umana che viene semplicemente e brutalmente cancellata, come se all’improvviso non esistesse più. Un preconcetto tanto duro a resistere che solo poche settimane fa, e cioè un quarto di secolo dopo quella mia esperienza, la Corte Costituzionale ha sancito che una vita affettiva (anche sessuale) è un diritto di cui il detenuto non può essere privato, disponendo che i penitenziari italiani si attrezzino per garantire la possibilità di incontri intimi tra il detenuto o la detenuta e le sue relazioni affettive, ufficiali o meno. Civilissima norma, peraltro applicata in moltissimi Paesi europei, ma che, date le condizioni delle nostre carceri, suona come pura utopia. Eppure dovrebbe essere evidente che pensare la pena solo come punizione e privazione non obbedisce al dettato costituzionale, ed è anche un lavoro in perdita. Un animale aggressivo lo recuperi solo trattandolo bene e curandolo; altrimenti resterà sempre pronto a sbranarti. Ma temo che l’opinione pubblica preferisca proprio l’idea di una bella gabbia da circo con dentro i leoni e il domatore con la frusta...

Torniamo ora al 1999. Fu subito scelto il titolo del film, che ci mettemmo più di un anno a girare e montare: Fine amore: mai, che faceva il verso alla definizione giuridica dell’ergastolo, “fine pena: mai”. Non avremmo potuto realizzarlo senza il coinvolgimento e la collaborazione del personale di sorveglianza, tanto che alcuni agenti recitarono anche, nella parte di sé stessi (una cosa, ahimè, oggi quasi impensabile).

Il film, che dura una quarantina di minuti, è costituito da una serie di scene montate a incastro, che svariano dal comico al drammatico. Per la parte comica sono felice di ricordare la collaborazione di tre amici particolari, Aldo Giovanni e Giacomo, che si prestarono a fare i “detenuti per un giorno”, socializzando con quelli veri. Lo sketch, inventato dai detenuti come tutto il resto, racconta di Giovanni e Giacomo che pianificano un’evasione nascondendosi nei sacchi della posta, amministrata dal maldestro Aldo; che, scambiando quella in uscita per quella in entrata, li fa finire al femminile. La cosa, tutto sommato, ai due non dispiace, salvo scoprire in fretta che le detenute di uomini non ne vogliono sapere perché hanno tutte storie d’amore tra di loro.

Nel film c’era anche la messa in scena di un grottesco “Convegno sull’affettività in carcere”, i cui relatori sono un sottosegretario, un prete e un ex-torturatore argentino diventato esperto di diritti umani... E molte altre sequenze, anche crude, rispetto a come si vive una dimensione così fisicamente privata in celle sovraffollate, dove la contiguità forzata dei corpi è un fatto concretissimo. Riuscimmo a girare anche al femminile, e in quel caso i racconti delle detenute tendevano meno alla commedia, ma piuttosto a una sorta di quieta disperazione rispetto al fatto di aver perso ogni tipo di rapporto con i propri uomini.

E non solo: c’è un’altra terribile questione che riguarda le madri detenute. Innanzitutto, i loro figli, a meno che vi rinuncino, devono crescere con loro in galera fino ai tre anni. Poi, vengono sottratti e dati in affido a familiari o a istituzioni. E così inserimmo la tragica storia vera, avvenuta a San Vittore, di un marito e di una moglie, entrambi detenuti, che, al compimento dei tre anni da parte del figlio, non riuscendo a reggere alla perdita, decisero di suicidarsi insieme, ciascuno nella sua cella e alla stessa ora.

“Fine amore: mai” si chiude con un pezzo di cinéma vérité sul matrimonio reale di due detenuti che proprio grazie al laboratorio si erano incontrati. Nella mia vita, quel matrimonio in carcere resta il più bello a cui abbia partecipato. E il più surreale, perché nemmeno sposarsi consentì ai diretti interessati di passare una notte insieme.

La fobia istituzionale per il sesso fu confermata dieci anni dopo, quando diressi “Tutta colpa di Giuda”, un film “normale” ma anche questo con detenuti e guardie vere. Dovendo girare quattro settimane nel carcere di Torino con una troupe regolare, dovetti sottoporre il copione al giudizio del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria di Roma.

La funzionaria preposta, gentilissima, mi disse: “Va tutto bene, ma so già che per una scena avremo problemi con i sindacati degli agenti”. Immaginavo due o tre situazioni problematiche, ma la sua risposta mi lasciò di sasso: “È la scena in cui il direttore del carcere e la volontaria fanno l’amore in un magazzino”. E perché mai? - chiesi. “Sarebbe un caso di omessa sorveglianza, e il personale non ci farebbe una bella figura”.

Capivo sempre di meno: non si trattava di sesso tra due detenuti, ma tra due persone libere. “Libere o detenute, un atto sessuale in carcere non si può consumare, è la legge”. Infatti, nel film Kasia Smutniak e Fabio Troiano finiscono per farlo a casa di lui. È ovvio che tutto questo ha a che fare con le radici cattoliche della nostra cultura e con i concetti di colpa, pena ed espiazione (e di sesso come colpa ulteriore...) tramite cui, inconsciamente, pensiamo all’idea di detenzione. Se no, perché chiameremmo il carcere con un termine smaccatamente religioso quale “penitenziario”?