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di Donatella Stasio

La Stampa, 30 ottobre 2023

Se il progetto della premier Meloni non troverà argine, farà cadere uno a uno i limiti al potere, essenza della democrazia. È vero quel che dice Giorgia Meloni quando attribuisce al suo governo una “responsabilità storica” nel voler portare l’Italia “nella Terza Repubblica” con l’annunciata riforma costituzionale. Non c’è dubbio che sia il disegno riformatore sia il primo anno di governo del centrodestra spingano il nostro Paese e le nostre istituzioni in direzione opposta a quella in cui ci ha portato la storia dal dopoguerra, e cioè la democrazia costituzionale, fondata su un sistema di pesi e contrappesi, dove il potere politico delle maggioranze di governo è controbilanciato da una serie di limiti a tutela del pluralismo e delle minoranze e dove le istituzioni interloquiscono e collaborano tra loro. Limiti che servono a evitare abusi e derive autoritarie. Questa “democrazia interloquente” - così l’ha definita Meloni più volte - proprio non piace alla destra di governo, che punta invece a una “democrazia decidente” (sono sempre parole della premier), in ossequio alla “semplificazione” del quadro istituzionale. Che, nei fatti, significa scarnificazione della democrazia costituzionale.

In questo senso, la responsabilità del governo Meloni è “storica”, perché vuole riportare l’Italia al massimo della semplificazione istituzionale, rappresentata da quell’”uomo solo al comando” che la nostra democrazia costituzionale ha voluto invece arginare dopo la drammatica esperienza dei totalitarismi del ventesimo secolo. In un’epoca attraversata da massicce regressioni democratiche, Meloni interpreta lo spirito del tempo e, se non incontrerà un argine adeguato, farà cadere, uno ad uno, i limiti al potere, cioè l’essenza delle democrazie pluraliste.

La “Terza Repubblica” che ci attende è, dunque, quella della “democrazia decidente” e della “semplificazione”. Di fatto, l’abbiamo già conosciuta nei dodici mesi passati. Dopo anni di governi di “coalizione”, “tecnici”, “strani”, “promiscui”, il governo Meloni è il primo esecutivo politico uscito dalle elezioni, sorretto da una maggioranza parlamentare omogenea e non litigiosa (così assicurano le sue diverse anime), numericamente molto ampia. Chi lo guida, infatti, ha ricevuto l’incarico dal presidente della Repubblica in tempi e con modalità rispettosi del dettato costituzionale. Eppure, nonostante queste premesse lasciassero immaginare una navigazione più “normale” che in passato, il governo si è finora mosso all’insegna della forzature delle regole istituzionali: un massiccio ricorso ai decreti legge, quasi fossimo in una continua emergenza (peggio di quella che davvero abbiamo attraversato negli anni precedenti, a causa del Covid); continui voti di fiducia sulle leggi da approvare in Parlamento, non più luogo di confronto ma solo di ratifica; ostentata insofferenza verso ogni forma di controllo o vigilanza (valga per tutte la vicenda dei controlli interni della Corte dei conti sull’attuazione del Pnrr); l’idiosincrasia per la leale collaborazione istituzionale (basti pensare a tutti i casi di mancata attuazione di sentenze della Corte costituzionale, per esempio in materia di tutela dei figli, di doppio cognome, di eutanasia ecc...).

Ecco i numeri. Al 22 ottobre 2023 (dopo un anno di governo) si contavano 45 decreti legge, circa 4 al mese (ritmo diminuito dopo l’estate grazie alla moral suasion del Quirinale), 52 decreti legislativi, 64 disegni di legge, 33 richieste di fiducia su altrettanti provvedimenti, 161 testi legislativi. Sempre secondo le rilevazioni del governo, dei 154 provvedimenti deliberati a tutto settembre 2023 dal Consiglio dei ministri, il 61% ha riguardato 5 punti del programma di governo”. Insomma, tutto si può dire tranne che questo esecutivo non sia stato… “decidente”. È francamente preoccupante che un governo che già interpreta in modo così “assolutistico” il proprio potere, ritenga di dover cambiare la Costituzione per disfarsi di interlocutori, controllori, di ogni limite, insomma, al proprio operato.

In settimana, forse, conosceremo i dettagli dell’annunciata riforma della Costituzione. Le indiscrezioni più recenti dicono che sarà una proposta minimalista per introdurre l’elezione diretta del premier e togliere al presidente della Repubblica ogni interlocuzione sulle maggioranze parlamentari. L’incarico verrebbe conferito in modo automatico a chi ha vinto le elezioni. In caso, poi, di crisi di governo, non ci sarebbe alcuna sfiducia costruttiva ma il tentativo di formarne un altro con la stessa maggioranza, che vota un nuovo premier. Altrimenti si va al voto. Dunque, anche lo scioglimento delle Camere da parte del Capo dello Stato diventerebbe un atto automatico. In sostanza, il presidente della Repubblica non sarebbe più un interlocutore istituzionale, come invece avviene oggi. Proprio perché a Meloni non piace la “democrazia interloquente”.

Sullo sfondo c’è poi il (difficile) rapporto con gli organi di garanzia, Corte costituzionale e magistratura, che in uno stato costituzionale europeo di diritto sono indipendenti. La maggioranza continua infatti a coltivare un’altra riforma costituzionale, quella sulla separazione delle carriere, non priva di contraccolpi sull’equilibrio dei poteri in uno scenario di accentuata “democrazia decidente” (alla Orban, per intenderci).

A parole, si garantisce che autonomia e indipendenza dei magistrati non saranno toccate ma la cronaca ci costringe a fare i conti con una diversa realtà. Basti pensare alla reazione di autorevoli esponenti del centrodestra (persino di quelli che si definiscono liberali, come il ministro Nordio) di fronte a magistrati “non allineati” alla volontà del governo: puntualmente, la “riforma della giustizia”, ovvero la separazione delle carriere, viene brandita in chiave punitiva e di ritorsione, con buona pace dell’autonomia e indipendenza delle toghe. Questo è accaduto - da ultimo - con l’incredibile attacco alla giudice Apostolico e a chi, come lei, ha emesso decisioni in materia di immigrazione sgradite al “governo democraticamente eletto”. Invece di fermarsi alle critiche (sempre legittime) e all’impugnazione del provvedimento ritenuto sbagliato, il governo è partito lancia in resta contro quei giudici, esponendoli a una gogna mediatica solo per aver applicato la legge in modo indipendente e motivato. È un segnale inquietante, nonostante i tentativi di ridimensionarlo.

I fondatori della democrazia statunitense già alla fine del 700 dicevano che se gli uomini fossero angeli non ci sarebbe bisogno di un “governo limitato”. Ma non siamo angeli, e perciò abbiamo bisogno di checks and balances. Ora come allora. Una conquista di civiltà che dobbiamo preservare.