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di Giuliano Battiston

Il Manifesto, 16 agosto 2023

Il 15 agosto di due anni fa i Talebani prendevano Kabul: tornava l’incubo della discriminazione di genere e dell’assenza di libertà. Le donne, escluse dall’istruzione, si sono organizzate in reti sotterranee e clandestine. I Talebani celebrano il secondo anniversario dalla conquista di Kabul. Rivendicano la piena sovranità, invocano il riconoscimento ufficiale dell’Emirato islamico d’Afghanistan e un seggio all’Onu.

Ma dentro e fuori dal Paese sono privi di quel consenso senza il quale le loro richieste rimangono illegittime. Conquistato sul campo di battaglia, rafforzato al tavolo negoziale prima della spallata militare che nell’estate 2021 ha reso palese la fragilità della Repubblica islamica, consolidato poi con la repressione di ogni dissenso, il monopolio della violenza è minacciato solo parzialmente dalla Provincia del Khorasan, la branca locale dello Stato islamico. Una minaccia anche per i Paesi della regione, scontenti della mancanza di inclusività del governo afghano ma consapevoli che ogni alternativa - collasso statuale, guerra civile - sia perfino peggiore. Canzonati dopo la firma nel febbraio 2020 dell’accordo di Doha, gli Stati uniti e i loro alleati sono in pieno stallo diplomatico. Sconfitti sul campo di battaglia, ricorrono agli strumenti della guerra economica. Il Paese è isolato. Pesano le sanzioni, il blocco all’estero dei fondi della Banca centrale afghana, l’interruzione di quegli aiuti allo sviluppo che hanno tenuto in piedi la Repubblica, un regime crollato su se stesso perché cercava legittimità a Washington prima che a Kabul, Herat, Jalalabad, Mazar-e-Sharif o nelle campagne del Paese.

Autorità di fatto ma non riconosciute dalla comunità internazionale, i Talebani sono convinti di averla, quella legittimità. Ma sbagliano. I loro sforzi sono ancora indirizzati ad assicurarsi la sopravvivenza del nuovo regime e a mantenere la tenuta interna. Gli esperti delle Nazioni unite per il monitoraggio delle sanzioni sui Talebani prevedono che le differenze tra le fazioni entro due anni sfoceranno in conflitto armato. Ma l’annuncio della fine dei Talebani continua a essere prematuro. Al contrario, la transizione dalla guerriglia ai ministeri non ha fatto implodere il movimento jihadista, le spinte centrifughe sono state trattenute dal centralismo autoritario del leader, Haibatullah Akhundzada. Che ha sabotato i tentativi di riavvicinamento con l’Occidente dell’ala pragmatica. E che nel futuro detterà la rotta anche sugli esteri: scelte radicali, ma più prevedibili per gli osservatori esterni. Molti dei quali sono rimasti sorpresi dalla governance degli islamisti: il cambio di regime, per quanto radicale e repentino, non ha portato al crollo o alla paralisi istituzionale. Quanto alla resistenza armata dei seguaci di Masoud junior, vale più sui social network che sul terreno. A ritenerla un’opzione reale e significativa, soltanto i Bernard-Henry Levy di turno.

La vera resistenza è civile, interna al Paese. E proviene dalle donne, perlopiù in forme sotterranee, nascoste, lontane dallo scrutinio censorio dei Talebani e dall’ipocrita sostegno delle capitali occidentali. Due anni fa promettevano di non abbandonare il Paese. Oggi, di fronte a quella che l’Onu definisce la più grave crisi umanitaria al mondo, la loro politica è afona, ridotta agli aiuti umanitari. Sulla carta: la diminuzione rispetto all’anno scorso è del 25%. Nel suo Piano di risposta umanitario, le Nazioni unite a marzo chiedevano 4,6 miliardi di dollari. Ridotti a 3,3 a giugno. I donatori non donano e i Talebani fanno apartheid di genere.

La decisione dell’aprile 2023 di vietare alle donne di lavorare anche per le Nazioni unite, ultimo di una lunga serie di editti discriminatori che negano l’accesso a lavoro, istruzione, salute, giustizia, libertà di movimento, ha messo in crisi anche il Palazzo di vetro di New York. Il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, tiene il punto: non possiamo abbandonare il Paese. Ma molti governi ne approfittano: la persecuzione di genere nei confronti delle donne, un crimine contro l’umanità secondo lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale, è un pretesto per abdicare alle proprie responsabilità.

Ma disimpegnarsi politicamente dall’Afghanistan retto dai Talebani in nome dei diritti delle donne è una vera e propria contraddizione. E un errore ripetuto. Durante la lunga parentesi della Repubblica islamica la diplomazia è stata subalterna o piegata all’opzione militarista, per poi investire su un accordo a tutto vantaggio dei Talebani. Oggi la politica è più necessaria di prima. Non ci sono scorciatoie o scelte facili. Solo opzioni meno peggiori delle altre. Ma l’alternativa è girare la testa dall’altra parte.