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di Michele Brambilla

huffingtonpost.it, 24 aprile 2024

Le torture ai ragazzi del carcere minorile non sono un’eccezione: sono lo sbocco di un sistema sbagliato che è più comodo non guardare, per non vedere anzitutto sé stessi. I “casi isolati”? Sono quelli di chi aiuta i detenuti. Sarebbe un grave errore liquidare come un caso di mele marce quello che è successo al Beccaria di Milano, dove tredici agenti della Polizia penitenziaria sono stati arrestati per violenze e torture ai danni dei minorenni detenuti, mentre altri otto sono stati sospesi. Partiamo proprio da questi ultimi otto. Sospesi e non arrestati. Perché? Sono accusati “solo” di aver coperto le violenze con relazioni false. Ma è proprio questo il centro della questione. L’omertà. O, peggio ancora, l’adeguamento al sistema. I pestaggi in carcere e le relative coperture non sono veleni di mele marce: fanno parte di un sistema.

Non che tutte le guardie siano violente con i detenuti: certo che no, anzi. E va detto che gli agenti di custodia (come si chiamavano una volta, ed era un nome bellissimo) fanno un lavoro difficile e sono essi stessi vittime di violenze. Ma il punto è che il mondo delle carceri - tutte: quelle minorili e quelle per adulti - vive su un gretto equilibrio per il quale le cose non devono mai cambiare. Il lavoro in carcere, in alcuni istituti, funziona bene? Allora aboliamolo, perché altrimenti si crea una disparità con i detenuti che non lavorano. Affidare la mensa ai detenuti e farli pranzare tutti insieme funziona? Certo che sì: funzionava a Padova, ad esempio, poi è arrivato un ministro che ha detto basta, perché altrimenti si crea una diseguaglianza con tutte le altre carceri in cui i detenuti mangiano da soli in cella. Meglio livellare verso il basso che verso l’alto: più facile e più comodo. E così è spesso per i casi di violenza come quello del Beccaria: ci sono guardie che entrano in servizio con i migliori propositi, ma poi qualcuno dei vecchi gli fa sapere che non deve rompere i coglioni perché altrimenti devono cambiare anche loro.

La sera di giovedì della scorsa settimana ho cenato all’interno del carcere minorile di Bologna. Grazie al direttore e al comandante, un’associazione che si chiama Fomal (Fondazione Opera Madonna del Lavoro) ha aperto una trattoria all’interno del carcere, proprio dentro i cancelli che si chiudono con quelle grandi chiavi che fanno rumore. I commensali sono tutti esterni. I ragazzi detenuti servono ai tavoli e aiutano in cucina uno chef che insegna loro un mestiere. Bellissimo. Ma quanti lo fanno? “Pochi, perché per cambiare in meglio le cose bisogna lavorare. E non tutti ne hanno voglia”, mi ha detto Beatrice Draghetti, la presidente della Fomal. Se tentare di recuperare i detenuti è sempre un dovere, lo è ancor di più, o almeno in modo più evidente, per gli Ipm, gli Istituti penali per minorenni. I ragazzi devono essere aiutati ad avere un futuro: se quando escono possono ricordare solo le botte e le ore trascorse a far nulla, come meravigliarsi se tornano a delinquere peggio di prima?

Poi c’è Mare fuori, la serie tv. Tutti coloro che lavorano all’interno degli Ipm non l’hanno apprezzata. Dicono che la realtà è molto diversa, e hanno ragione. Però a Mare fuori vanno riconosciuti tre meriti. Il primo è quello di aver mostrato che quasi tutti i ragazzi che finiscono dentro hanno alle spalle una vita disastrata: sono cresciuti senza famiglia o in famiglie pessime. Sono solo colpevoli da condannare o anche sfortunati da aiutare? Il secondo è di aver fatto vedere che chi non rientra in quel “quasi tutti” è uno, per così dire, “normale”. “Di buona famiglia”, anche di buoni sentimenti e di buona educazione. Uno come noi che ci crediamo diversi, insomma. Ma uno cui è successo di inciampare in un attimo, in un gesto sbagliato che gli ha cambiato il destino. Un errore che sarebbe potuto capitare a chiunque. Il terzo merito sta nella rappresentazione di questi ragazzi che stanno in galera. Si approcciano da bulli, fanno i sostenuti con i loro tatuaggi i muscoli esibiti e la sigaretta in bocca; giocano a fare i boss. Ma quando poi entri in rapporto con loro scopri che sono bambini, bisognosi di ricevere ma anche di dare affetto. Così in Mare fuori e così anche nella vita vera.

Nei giorni scorsi a Treviso alcuni ragazzi con la sindrome di Down sono entrati nell’Ipm per giocare con i detenuti. Erano giochi di società arrivati in carcere grazie un progetto che si chiama “La valigia di Marco e Anna”. Ecco, all’inizio i detenuti facevano i gradassi, gli sbruffoni, i superiori. Poi si è creata un’empatia, si è giocato tutti insieme e alla fine i detenuti hanno ringraziato quasi in lacrime gli educatori e le educatrici: “Abbiamo capito che cosa vuol dire la diversità”.

Ci sarebbe poi un quarto merito, di Mare fuori, e sarebbe quello di aver attirato l’attenzione sulla situazione degli Ipm. Ma purtroppo nessuno pare raccogliere. Si va avanti sempre e solo grazie a persone di buona volontà che ci mettono il cuore: come quelli della Fomal o della Valigia di Marco e Anna, o come i don Claudio Burgio che a Vimodrone, alle porte di Milano, ha creato la comunità di Kayros. Il sistema invece non reagisce. Continua come sempre affinché nulla cambi, perché per cambiare il sistema che regna nelle carceri bisognerebbe innanzitutto cambiare se stessi.