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di Franco Corleone

L’Espresso, 8 marzo 2024

La rivoluzione della psichiatria si è compiuta nel 2015 con la chiusura degli Opg. Ma oggi va difesa. Franco Basaglia non è una figura da togliere dall’ombra; il suo nome ricorre spesso, esaltato o demonizzato: utilizzato spesso strumentalmente per buone e cattive cause. Il centenario della sua nascita - che L’Espresso ha ricordato sul numero scorso - vale perciò come occasione per riflettere su una storia davvero unica e irripetibile, che nasce nel 1961 a Gorizia, piccola città di provincia del Friuli Venezia Giulia, nota per le tragedie della prima e della seconda guerra mondiale. Libero docente in Psichiatria, Basaglia dirige per dieci anni l’Ospedale psichiatrico giudiziario con una équipe di giovani collaboratori coinvolti in un esperimento per aprire il manicomio, abbattendo i muri fisici e simbolici.

Il celebre volume “L’Istituzione negata” - edito nel 1968 da Einaudi - assunse il carattere di un manifesto contro la violenza del potere e l’internamento di tanti esclusi, mettendo in discussione la psichiatria positivista e organicista. Il libro riferiva l’esperienza di Gorizia, tra assemblee e confronti fra pazienti, medici e infermieri; ed era arricchito da saggi teorici, che mettevano in discussione l’immagine banale della follia, la concezione della “pericolosità” del matto, e contestavano il controllo sociale dei devianti.

L’avventura basagliana proseguì a Trieste, con felici incursioni a Parma, dove il mitico assessore Mario Tommasini schierò l’Amministrazione provinciale contro tutte le istituzioni locali, pubblicando il fondamentale libro “Che cos’è la psichiatria?” (che raccoglieva le riflessioni del gruppo di Gorizia con, in copertina, un disegno di Hugo Pratt che richiamava l’etichettamento del malato mentale come “pericoloso a sé e agli altri e di pubblico scandalo”).

Un altro libro che fece clamore fu “Morire di classe. La condizione manicomiale fotografata da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin” (edito nel 1969 da Einaudi). Il miracolo di Basaglia e del suo gruppo, un collettivo ricco di intelligenze con inevitabili rotture e lacerazioni, fu di costruire una egemonia politica e culturale dal basso, sconfiggendo baroni e poteri forti. Molte energie furono spese per immaginare un modello di Comunità terapeutica che costituisse una alternativa al manicomio. La spinta al cambiamento divenne inarrestabile: nel 1978, il 13 maggio (pochi giorni dopo l’assassinio di Aldo Moro), il Parlamento, con una accelerazione inconsueta, approvò la legge 180 - divenuta nota come la legge Basaglia - che prevedeva la chiusura dei manicomi. Quella decisione fu determinata anche dalla raccolta di firme per un referendum promosso dai radicali, a testimonianza di una alleanza virtuosa tra la spinta popolare e le istituzioni per una grande riforma.

Basaglia morì nel 1980 e non vide la realizzazione del suo sogno: si dovette attendere il 1998, venti anni dopo, per chiudere l’ultimo dei tanti manicomi che sopravvivevano alla riforma, quali contenitori del cosiddetto residuo manicomiale (una espressione disumana). Nel 1988, grazie a L’Espresso, denunciai il lager di Agrigento. Da allora non ci si è fermati e finalmente nel 2015 si sono chiusi gli Opg, gli orrendi manicomi giudiziari che la legge 180 non aveva toccato.

La rivoluzione era così compiuta. Oggi, a quasi dieci anni di distanza, viviamo tempi bui e oscuri con tentazioni di regime. La memoria di Basaglia può aiutare a battere la nostalgia del manicomio che si manifesta impudicamente.