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di Lorenzo Zilletti

Il Riformista, 29 giugno 2024

La giustizia riparativa continua ad alimentare il dibattito tra gli addetti ai lavori Con lo studioso di diritto penale approfondiamo il tema da una nuova prospettiva. Per quanto ancora poco applicata nei tribunali, la giustizia riparativa suscita ampio dibattito tra gli addetti ai lavori. Molte le riflessioni critiche, specie dei processualisti che ne denunciano il contrasto con il principio costituzionale della presunzione di innocenza. Qui approfondiamo il tema da una prospettiva diversa, assieme a Fausto Giunta, studioso di diritto penale che vivifica le proprie riflessioni scientifiche con lo svolgimento della professione forense.

L’espressione “giustizia riparativa” indica un modello di trattamento del conflitto sociale creato dal reato, teorizzato e poi sperimentato negli USA a partire dagli scorsi anni 70. È una risposta al reato radicalmente distinta dai tradizionali approcci penalistici, sia da quelli più risalenti di impronta retributiva, sia dalle impostazioni preventive oggi prevalenti. Il suo obiettivo è superare la pena come categoria logica e favorire la composizione della frattura relazionale tra reo e vittima.

Qualcosa in termini di riparazione esisteva anche prima della riforma Cartabia…

In effetti, negli ultimi cinquant’anni il sistema ha valorizzato, in chiave rieducativa, deflattiva e collaborativa condotte riparative in senso lato. Penso alle previsioni premiali in materia di criminalità organizzata, che incentivano condotte antagonistiche rispetto all’offesa, come la liberazione dell’ostaggio o la collaborazione processuale. O alle condotte risarcitorie e ripristinatorie nell’ambito di istituti come la sospensione condizionale e in quelli concernenti la fase esecutiva della pena. Per non dire dei meccanismi estintivi, in settori come la sicurezza del lavoro, che scattano con la regolarizzazione tardiva di violazioni formali. La giustizia riparativa è molto diversa perché prescinde dalla fattispecie incriminatrice e si occupa del sottostante conflitto intersoggettivo. L’obiettivo è riavvicinare le parti, mentre la giustizia tradizionale seda il conflitto allontanandole (il carcere è strumento di punizione mediante separazione).

Per chi non vede con favore il sistema introdotto dalla riforma Cartabia, che il mondo della giustizia riparativa sia diverso da quello del diritto penale è positivo, purché questi mondi restino nettamente separati. Nulla di negativo se l’imputato o il condannato trovano il consenso dell’offeso per cercare di ricucire il loro rapporto. Basta che ciò resti un affare privato. Il problema, invece, è che la riforma interseca i piani…

Il modello oggi introdotto nell’ordinamento è chiamato a convivere e a integrare quello penale in senso stretto. Sotto questo profilo, in quanto alternativo alla punizione, esso porta alla contrazione del diritto penale carcerocentrico e alla sua inumanità. Ciò non impedisce, però, che l’innovazione abbia ricadute negative sui diritti del reo, tra i quali rientra anche il non rinnegare il proprio passato, quand’anche lo si consideri definitivamente chiuso. L’avvicinamento reo-vittima non era certo precluso o scoraggiato dalla normativa precedente. Oggi è perseguito espressamente. Da qui gli interrogativi circa l’autenticità dei propositi del reo, che potrebbe prestarsi solo per ottenere benefici sanzionatori. Inquieta che l’avvicinamento alla vittima stia diventando un passaggio obbligato, non espressamente previsto dalla legge per ottenere benefici penitenziari. Si rischia così di fagocitare il principio di rieducazione, introducendo nel trattamento un particolare “elemento soggettivo” del colpevole la cui mancanza vanifica l’oggettività dei progressi risocializzativi. Nella giustizia riparativa, poi, la vittima può avere una forza di incidenza sul destino del reo che rischia di privatizzare la risposta al reato.

Purtroppo le tue considerazioni sollevano dubbi anche sulla bontà dell’adozione del nuovo sistema nella fase esecutiva che, a differenza di quella del processo, ha il vantaggio di non confliggere con la presunzione di innocenza…

La giustizia riparativa presenta luci e ombre. Concentrandosi sulle prime, non possono dimenticarsi gli incontri tra terroristi e i parenti delle loro vittime. Credo fermamente nell’autenticità del bisogno esistenziale di parlare insieme di ciò che ha unito tragicamente le loro vite. Altro discorso, e qui si allungano le ombre, se l’obiettivo della vittima è quello di sollecitare una richiesta di perdono. Al già segnalato rischio di privatizzazione del “penale” si aggiunge quello di una sua eticizzazione.

Convengo che la risocializzazione non implichi obbligatoriamente l’ammissione postuma di una responsabilità precedentemente negata. Nutro il convincimento laico che, con l’adesione dell’interessato, si possa risocializzare chiunque, anche chi mantenga la convinzione di essere stato condannato ingiustamente. Tu hai accennato agli incontri tra ex terroristi e parenti delle vittime: questi, però, sono avvenuti a distanza di decenni dai fatti, dopo che i condannati avevano scontato l’intera pena. Non possiamo equiparare l’esperienza di fi gure straordinarie come la fi glia di Moro o il figlio di Bachelet, con quella spicciola del quotidiano. La reazione comune di chi ha subìto un reato non è domanda di riconciliazione, è domanda di riconciliazione, piuttosto di “vendetta”…

Se si guarda alle misure alternative al carcere, compresa la liberazione condizionale quale unico beneficio penitenziario previsto dal codice Rocco, è agevole osservare come esse non perseguano l’emenda del condannato. Il loro funzionamento ruota sulla ben più “laica” prognosi favorevole di reinserimento sociale. Oggi i progressi rieducativi non bastano più. Decisivo diventa l’atteggiamento del reo nei confronti della vittima e quello di quest’ultima rispetto al primo. Si apre uno scenario molto complesso. Nel modello della riparazione “pura”, l’avvicinamento delle parti non è un fenomeno giuridico ma una dinamica relazionale. I professionisti del processo devono restare fuori della stanza della mediazione. Il che significa separazione del reo da colui che lo ha difeso, l’avvocato, che non può entrare nella stanza del mediatore perché la parte finale gli è interdetta. Può risentirne la tutela del reo, che l’epoca moderna ha indicato come il beneficiario del sistema delle garanzie, prima tra tutte l’assistenza di un difensore. Il sistema rischia di passare nelle mani del mediatore: fi gura professionale di cui sappiamo ancora poco o nulla. Per questa via non viene svalutato soltanto il ruolo del difensore, ma si finisce anche per de-giurisdizionalizzare il conflitto innescato dal reato. Ne risente il ruolo garantistico del giudice: il colpevole, del quale non cesserò di preoccuparmi, resterà nelle mani di se stesso.

*Avvocato penalista