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di Gian Domenico Caiazza

Il Riformista, 23 marzo 2024

Mentre il tema del sovraffollamento carcerario preme alle porte, sotto la spinta drammatica ed incessante dei suicidi di un numero impressionante di detenuti, sarà bene ricordare che almeno il 30% di quella popolazione è detenuta in custodia cautelare. Persone dunque private della libertà personale non perché chiamati ad espiare la pena loro inflitta da una sentenza definitiva, ma perché in attesa di quel giudizio, assistiti per sovrappiù dalla presunzione costituzionale di innocenza. Il tema è certamente molto complesso, ma soprattutto è secolare, come testimonia la bella “intervista impossibile” del nostro Lorenzo Zilletti a Francesco Carrara, che quelle “risposte” le ha testualmente scritte nientedimeno che intorno al 1870.

La risalenza nel tempo di questa tomentosa tematica non ci è di conforto, anzi tutt’altro: sarebbe stato lecito aspettarsi, a distanza di 150 anni, una solida evoluzione della nostra civiltà giuridica, soprattutto alla luce dei principi fissati nella nostra Costituzione in tema di libertà personale. Ed effettivamente le regole del nostro codice, prese alla lettera, segnano con chiarezza i parametri di quella inesorabile evoluzione civile: assoluta eccezionalità della privazione cautelare della libertà personale, obbligo di accurata motivazione in ordine ai presupposti di tale eccezione, onere per il Giudice di privilegiare la forma meno afflittiva di restrizione, riservando quella in carcere alle più gravi e residuali ipotesi di pericolo per la collettività.

Ma sappiamo tutti che, nella quotidianità giudiziaria, la forza vincolante e categorica di quei principi risulta usurata e vulnerata da una radicata pulsione all’uso ordinario di questo strumento eccezionale, spesso con evidente finalità di anticipazione della pena. Questo avviene mediante l’affermarsi di motivazioni stereotipe, soprattutto con riguardo al pericolo di reiterazione del reato, che si fa conseguire quasi automaticamente alla gravità del reato ipotizzato a carico dell’indagato, ed al pericolo di inquinamento delle prove, ritenuto - come dire - implicito, scontato nelle intenzioni di chi riceva la notizia di essere indagato di un reato. Ma è soprattutto la potente forza mediatica degli schiavettoni intorno ai polsi di una persona, solo sospettata di aver commesso un reato, il vero propulsore di questo endemico abuso giudiziario della custodia cautelare.

Una indagine penale senza l’arrestato è acqua fresca che scorre sulla pietra, è una notizia senza punto esclamativo, è un messaggio afono alla pubblica opinione che chiede rassicurazioni. Occorre dire invece subito “lo abbiamo preso!” per scuotere la sonnolenta attenzione dei media e dei social verso gli eventi senza schizzi di sangue; occorre offrire subito l’ebrezza della gogna, dunque della espiazione, dunque del colpevole.

E quale garanzia migliore può essere data, di affidabilità di una inchiesta giudiziaria, di fondatezza di una ipotesi accusatoria, se non l’arresto - e preferibilmente il carcere - per l’indagato? Di questo ragiona questa settimana PQM, di quanto profonda sia la distanza tra i principi normativi e la loro concreta applicazione, e di quanto flebili siano i pallidi tentativi di riformette che sembrano girare intorno al problema, piuttosto che affrontarlo di petto. Perché rendere ordinaria ed usuale la privazione della libertà prima del giudizio di colpevolezza è e resta una ferita sanguinosa inferta alla civiltà di un Paese, che va curata con coraggio e determinazione, non con qualche pannicello caldo in favore di telecamera.