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di Iuri Maria Prado

L’Unità, 10 gennaio 2024

Cuno Tarfusser, che aveva rimuginato sul processo per la strage di Erba fu trattato come un molestatore del verbo giudiziario. Poi si beccò un procedimento disciplinare. Torniamo indietro di qualche mese e ricordiamo a quale trattamento fu sottoposto Cuno Tarfusser, il magistrato che aveva rimuginato sul processo per la strage di Erba in esito al quale sono stati condannati all’ergastolo Olindo Romano e Rosa Bazzi.

L’avevano passato a dir poco per un disinvolto rompiscatole, quando non per un indisciplinato molestatore dell’intangibilità del verbo giudiziario, e si era beccato un procedimento disciplinare perché non aveva rispettato non so più quale protocollo nella richiesta di attivazione della procedura di revisione del processo. Bene, adesso pare che gli elementi per chiedere e disporre quella revisione fossero consistenti, tanto è vero che il meccanismo si è messo in moto. Il disappunto dei parenti e degli amici delle vittime è ovviamente comprensibile: hanno tutto il diritto di considerare buona la sentenza di condanna, e di ritenere oltraggioso il rifacimento di un processo che potrebbe condurre a una decisione di segno opposto.

Ma per il resto bisognerebbe stare in silenzio e aspettare, perché delle due l’una: o quei due sono stati giudicati colpevoli in un processo che reggeva, e che regge anche alla luce delle nuove emergenze, e allora la revisione non fa nessun danno; oppure sono stati giudicati colpevoli ingiustamente, e cioè erano e sono innocenti, e allora la revisione non fa danno ma lo rimuove. E si noti: lo rimuove dopo diciassette anni di infondate accuse, dopo una somma di decisioni sbagliate e dopo la carcerazione lungamente quanto ingiustamente protratta dei due innocenti. Non in questo caso particolare, ma sempre, l’ingiustizia della condanna in realtà si sommerebbe all’ingiustizia costituita dal mancato accertamento delle responsabilità effettive: e, quando succede, si tratta di una situazione che denuncia un doppio difetto, un doppio fallimento dell’attività giurisdizionale.

Che l’ordinamento, sia pur tardivamente, sia dotato degli strumenti per porre rimedio al proprio malfunzionamento, e all’ingiustizia che esso produce, dovrebbe confortare: non far strillare come oche spennate i fedeli di una giustizia sottoposta a vaglio. C’è probabilmente questo, a far scattare quel meccanismo reattivo: il dispetto per l’idea che una sentenza non sia un giudizio oracolare (“le sentenze si rispettano”, “le sentenze non si commentano”), ma il prodotto di un’attività umana, possibilmente erronea, possibilmente trascurata, possibilmente affrettata. Possibilmente ingiusta. Quando non è così, tanto meglio, ovviamente. Ma quando è così, che cosa facciamo? Ce la teniamo, tenendo due innocenti in prigione?

Rileggiamo quel che dissero i magistrati di quel processo, quando Cuno Tarfusser fece sapere che a suo giudizio andava rifatto: la procura di Como, dissero, “Tutelerà comunque, nelle sedi e con le forme opportune, l’immagine dell’ufficio, a difesa dei singoli magistrati e della loro correttezza professionale”. Ma l’immagine dell’ufficio e la correttezza dei magistrati sono poste in dubbio se si controlla che il processo fosse giusto o se un processo sbagliato resta in piedi e due innocenti restano in galera?