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di Gustavo Ghidini*

Corriere della Sera, 12 settembre 2023

Inquieta la possibilità, che la separazione delle carriere sembra rendere assai concreta, che uno dei due magistrati da cui dipenderà la sua sorte giudiziaria, sia “educato” ad accusarlo, e che gli argomenti a sua difesa da presentare al giudice siano affidati al solo avvocato difensore. Annosa e spinosa, la querelle ravvivata dalla recente lettera aperta di oltre 300 magistrati fuori ruolo contrari alla separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri. Mi consenta di esprimere una personale opinione nella prospettiva del comune e mediamente informato cittadino. Un cittadino che abbia a cuore - al di là degli aspetti tecnico-giuridici del dibattito - il valore della giustizia come servizio pubblico: servizio, dunque, ai cittadini “utenti” della giustizia.

Inquieta la possibilità, che la separazione delle carriere sembra rendere assai concreta, che uno dei due magistrati da cui dipenderà la sua sorte giudiziaria, sia “educato” ad accusarlo, e che gli argomenti a sua difesa da presentare al giudice siano affidati al solo avvocato difensore, Forse non avverrà così, v’è da augurarselo, ma così il pericolo appare concreto. Ed è un pericolo che colpisce la fiducia del cittadino nello Stato come “fornitore” di giustizia. Quel ruolo richiede infatti che ogni magistrato, nei diversi ruoli, persegua un unico ed unitario interesse generale: accertare la verità dei fatti nei modi processuali stabiliti, e decidere di conseguenza, secondo la legge. Il cittadino si aspetta che, come ora avviene (e comunque come ora deve avvenire) il pubblico ministero cerchi, con pari impegno, prove a carico e a discarico dell’indagato, e, se del caso, chieda l’archiviazione o l’assoluzione. Il pm deve rimanere “parte imparziale” del processo: a differenza del difensore che fa l’interesse privato e personale dell’imputato. Al giudice, poi, spetterà di valutare le prove e gli argomenti presentati dall’uno e dall’altro. È opinione autorevole e diffusa quella secondo cui ciò vale anche nell’ambito del processo “accusatorio”: ove il ruolo dialettico del pubblico ministero si rappresenta in termini di un più intenso e dinamico (e “organizzato”) confronto con il difensore, non certo in quelli di “parte contro” il cittadino indagato. Guai se questi fosse indotto a contare soltanto sull’abilità di un (solo-per-abbienti) Perry Mason, e non anche sull’opera dello Stato, per veder riconosciute le proprie ragioni. Non occorre (ma aiuta…) aver visto tanti film e telefilm su processi penali americani per reputare inconcepibile che lo Stato operi, o anche solo appaia operare, attraverso un suo organo, orientato contro il cittadino indagato.

Dovrebbe dunque promuoversi un sistema organizzativo che assieme alla distinzione dei ruoli, valorizzi il principio della unitarietà della funzione giurisdizionale, cioè l’unitaria missione istituzionale del “dire giustizia” nel pubblico interesse. Potranno quindi eventualmente introdursi nuove regole, basate sull’esperienza, per rafforzare la distinzione effettiva delle specifiche funzioni dei magistrati.

Regole da aggiungersi a quelle già esistenti (v.ad es. l’art 34 cod. proc. pen., interpolato da varie sentenze interpretative della Corte Costituzionale) che prevede varie incompatibilità fra pm e giudici. E anche fra giudici, come quella per cui il Gip che ha adottato un provvedimento cautelare non può essere lo stesso magistrato che decide sul rinvio a giudizio). Ciò detto, va ribadita l’esigenza che ogni magistrato, a partire dalla formazione sino all’esercizio delle funzioni, effettivamente condivida, pur quando investito di ruoli diversi, una unitaria “cultura della giurisdizione”: che è fatta anche di riflessione scrupolosa, confronto, capacità autocritica. E che proprio ad evitare l’avversarsi o il ripetersi di manifestazioni di “protagonismo” e comunque di scarsa ponderazione nell’esercizio della funzione requirente, vada garantita e rafforzata quella condivisione effettiva.

*Presidente del Movimento Consumatori