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di Luigi Manconi

La Stampa, 25 agosto 2023

Da sempre le parole dicono molto più di quanto le parole dicano. E non è necessario evocare Wittgenstein per sapere che la lingua costruisce la realtà e ne dà sostanza e corpo. Questo per dire che le controversie in tema di “politicamente corretto” sono maledettamente più serie di quanto possano apparire e di quanto le polemicucce piccine picciò di casa nostra lascino intendere. Di conseguenza, anche la vicenda del libro scritto dal generale Roberto Vannacci in un italiano rudimentale non va sottovalutata, né ridotta alla sublime farsa dell’Alto Gradimento di mezzo secolo fa (pur se le suggestioni sono tante: là il colonnello Buttiglione e Catenacci, qui il più alto in grado Vannacci).

L’episodio rivela, in primo luogo, a quale livello di asprezza sia giunta la “guerra civile” per l”gemonia all’interno della destra italiana e, sullo sfondo, come la forza elettorale e coalizionale di Fratelli d’Italia mostri crepe che sarebbe un errore ritenere di natura principalmente culturale. No, è lotta politica vera che, come tutte le lotte politiche vere, si combatte anche sul piano degli orientamenti collettivi e del senso comune, dell’immaginario e, appunto, del linguaggio.

Perciò, la questione del politicamente corretto è tutt’altro che una moda effimera o un vezzo delle élite soddisfatte di sé e del proprio status o, ancora, un capriccio ideologico di quel mondo che gli sciocchi tuttora chiamano sciaguratamente radical chic. È invece una fondamentale questione politica. Il che rende ancora più meschino l’uso che ne viene fatto dalla destra italiana e, in particolare, da quella mediatica. Se ne trova una esemplificazione formidabile proprio nel libro di Vannacci, quando egli - successivamente sostenuto da una turba di neo-costituzionalisti alla cacio e pepe - rivendica la più ampia libertà di espressione e “il diritto fondamentale” a chiamare “culattoni” gli omosessuali. Per quanto mi riguarda, penso che chi ricorre a questa indecente sineddoche (la parte per il tutto) per indicare un essere umano non è un buontempone animato da spirito goliardico, bensì un poveraccio frustrato; e non chiederei un solo giorno di carcere o alcuna altra sanzione penale per uno sfigato come quel generale che rimpiange i bei tempi andati, quando si poteva impunemente dire: pederasta, invertito, frocio, ricchione, buliccio, femminiello, bardassa, caghineri, cupio, buggerone, checca, omofilo, uranista (così nel libro). Personalmente, mi basta la sanzione morale comminata a Vannacci dalle persone perbene, per una ragione di elementare buon gusto e di semplice rispetto della dignità umana.

Ma dire questo significa forse, come scrivono i putibondi giornali di destra, che il generale omofobo è sottoposto a “linciaggio” e subisce un “massacro”? Per essere un guerriero tanto valoroso quale viene descritto sembrerebbe un po’ cagionevole. Tuttavia, come si diceva, la questione del politicamente corretto va oltre, molto oltre. Criticati tutti gli eccessi, le esagerazioni e le ridicolaggini che quella strategia di correttezza linguistica ha prodotto, resto convinto che gli errori e gli orrori determinati dalla guerra culturale contro il politically correct siano più gravi della pur disastrosa pudicizia linguistica che ha ingessato parte del discorso pubblico e irrigidito la dinamica di alcuni conflitti culturali importanti. L’origine del politicamente corretto, a ben vedere, è antica. Tra i primi diritti rivendicati dagli esseri umani c’è stato quello di dotarsi di un proprio nome. Il diritto, cioè, a nominarsi, a scegliere la definizione di sé che si vuole affermare, che si vuole comunicare al mondo, che si vuole che il mondo ci riconosca.

Si pensi a quale deve essere stata la sofferenza dello schiavo per liberarsi e per ottenere di essere chiamato con un nome proprio: che non fosse quello servile o un numero o un attributo comune a tutti i suoi simili. La lotta per il nome è fondamentalmente lotta per l’identità. Il diritto, cioè, a non essere chiamato attraverso il nome - e lo stereotipo e il giudizio e il disprezzo - imposto dall’altro, da chi detiene tutto il potere, compreso quello di nominare cose e persone. Tutto qui. Poi, quando è necessario, critichiamo e beffiamo le iperboli e gli eufemismi che precipitano nel grottesco o nel puerile. È questa la ragione che rende così importante una sentenza della Corte di Cassazione di qualche giorno fa, a proposito di un manifesto della Lega che definiva “clandestini” un gruppo di richiedenti asilo arrivati a Saronno nel 2016, in attesa del riconoscimento della protezione internazionale.

Nella sentenza si legge: “È fermo convincimento di questa Corte che un termine come clandestino ha assunto concretamente, nell’utilizzo corrente, un contenuto spregiativo e una valenza fortemente negativa”. La sentenza è davvero definitiva, in tutti i sensi. Rileggiamo: quel termine ha assunto “concretamente, nell’utilizzo corrente, un contenuto spregiativo”. Concretamente, appunto.

Nella storia materiale della lingua italiana, in questo secondo dopoguerra, “clandestino” è parola usata in due circostanze: a) per definire una relazione adulterina e un rapporto extraconiugale; b) per indicare l’attività criminale occulta delle organizzazioni terroristiche. Con questi precedenti come negare che quella definizione attribuita a un profugo, ma anche a un migrante irregolare, non abbia un significato esplicitamente discriminatorio? Lo stesso che sembra ispirare le considerazioni, si fa per dire, geo-politiche di Vannacci quando parla di quanti fingerebbero di scappare da fame, guerra e persecuzioni per trovare un comodo rifugio in Italia. In altri termini, palesemente, il generale parla di cose più grandi di lui.