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Il Dubbio, 18 settembre 2023

L’incipt del libro di Hannah Arendt, “La banalità del male”, dedicato al processo ad Eichmann. “Beth Hamishpath” - la Corte! Queste parole che l’usciere grida a voce spiegata ci fanno balzare in piedi giacché annunziano l’ingresso dei tre giudici: a capo scoperto, in toga nera, essi entrano infatti da una porta laterale per prendere posto in cima al palco eretto nell’aula. Ai due capi del lungo tavolo, che presto si coprirà di innumerevoli volumi e di oltre millecinquecento documenti, stanno gli stenografi. Subito sotto i giudici c’è il banco degli interpreti, la cui opera è necessaria per i dialoghi diretti tra l’imputato (o il suo difensore) e la Corte; per il resto, sia la difesa sia la maggior parte degli stranieri seguono il dibattimento, che si svolge in lingua ebraica, ascoltando con la cuffia la traduzione simultanea, che è ottima in francese, passabile in inglese, e veramente pessima e spesso incomprensibile in tedesco. (Data la scrupolosa correttezza con cui il processo è stato organizzato dal punto di vista tecnico, è un po’ strano che il nuovo Stato d’Israele, malgrado la sua alta percentuale di cittadini di origine tedesca, non sia riuscito a trovare una persona capace di tradurre bene in tedesco, unica lingua che l’imputato e il suo avvocato capiscono; poiché in Israele l’avversione per gli ebrei tedeschi non è più cosí forte come una volta, il piccolo mistero si può spiegare soltanto con la ben più antica e tuttora potente “vitamina P,” come gli israeliani chiamano quella sorta di protezionismo a cui ci si ispira nel selezionare i funzionari dell’apparato governativo e della burocrazia.) E sotto gli interpreti, una di fronte all’altro (sicché il pubblico vede gli interessati di profilo) notiamo la gabbia di vetro dell’imputato e il recinto dei testimoni. Infine, al gradino più basso, con le spalle rivolte all’uditorio, il Pubblico ministero con i suoi quattro assistenti, e l’avvocato difensore, che sarà fiancheggiato da un assistente soltanto durante le prime settimane.

Per tutto il processo non ci sarà mai nulla di teatrale nel comportamento dei giudici. Entrano con passo disinvolto, ascoltano con serietà e attenzione, e i tratti del loro volto s’irrigidiscono per un senso naturale di pena al racconto di tante sofferenze; la loro impazienza, quando l’accusa cerca di prolungare all’infinito le udienze, è spontanea e dà un senso di sollievo; il loro atteggiamento verso la difesa è forse fin troppo corretto: si direbbe che non dimentichino mai che il dottor Servatius combatte “questa disperata battaglia quasi da solo e in un ambiente ostile”; i loro modi verso l’imputato sono sempre irreprensibili. Si vede subito che sono tre uomini buoni e onesti, sicché non fa meraviglia che nessuno di essi ceda a quella che pur dovrebbe essere la loro massima tentazione, in un ambiente simile: cioè, per quanto nati ed educati tutti e tre in Germania, attendere di volta in volta, prima di parlare, che le dichiarazioni dell’imputato e del suo difensore siano tradotte in ebraico. Moshe Landau, il presidente, non riesce quasi mai a frenarsi e ad aspettare che l’interprete abbia terminato, anzi spesso lo interrompe, correggendo e migliorando la traduzione, visibilmente lieto di potersi distrarre un po’ e di poter dimenticare per un istante la gravosità del suo compito. Qualche mese più tardi, durante l’interrogatorio di Eichmann, egli non esiterà ad usare la sua lingua materna, il tedesco, inducendo i colleghi a fare altrettanto: una prova - se di una prova ci fosse ancora bisogno - della sua notevole indipendenza di spirito, che gli permette di non curarsi dell’opinione pubblica israeliana. Fin dall’inizio non c’è dubbio che è il giudice Landau a dare il tono; ed è lui che fa di tutto perché l’irruente teatralità del Pubblico ministero non trasformi questo processo in una semplice messinscena. Se non sempre vi riesce, è soltanto perché il dibattimento si svolge su una specie di ribalta, davanti a un uditorio, e il grido magnifico dell’usciere, al principio di ogni udienza, fa quasi l’effetto di un sipario che si alzi. Chiunque sia stato a progettare quest’aula della modernissima Beth Ha’am, la Casa del Popolo (circondata ora da alti reticolati, sorvegliata dal tetto alle cantine da poliziotti armati fino ai denti, con una fila di baracche di legno nel cortile antistante, dove tutti coloro che entrano sono perquisiti da mani esperte), sicuramente aveva in mente un teatro, con tanto di orchestra e di loggione, di scena e proscenio e porte laterali per l’ingresso degli attori. Questa aula è certo una sede indovinata per il processo spettacolare che David Ben Gurion, Primo ministro d’Israele, già prevedeva quando decise di far rapire Eichmann in Argentina e di farlo portare a Gerusalemme perché il Tribunale distrettuale lo giudicasse per la parte avuta nella “soluzione del problema ebraico.” E Ben Gurion, giustamente chiamato “l’architetto dello Stato,” resta il regista invisibile del processo. Non assiste a nessuna seduta; nell’aula del tribunale parla per bocca del Procuratore generale, Gideon Hausner, il quale, rappresentando il governo, fa proprio del suo meglio per obbedirgli. E se per fortuna gli sforzi del sig. Hausner spesso non raggiungono il risultato voluto, la ragione è che il processo è presieduto da una persona che serve la giustizia con lo stesso zelo con cui egli serve lo Stato d’Israele. La giustizia vuole che l’imputato sia processato, difeso e giudicato, e che tutte le altre questioni, anche se più importanti (“come è potuto accadere?,” “perché è accaduto?,” “perché gli ebrei?,” “perché i tedeschi?,” “quale è stato il ruolo delle altre nazioni?,” “fino a che punto gli Alleati sono da considerarsi corresponsabili?,” “come hanno potuto i capi ebraici contribuire allo sterminio degli ebrei?,” “perché gli ebrei andavano a morte come agnelli al macello?”), siano lasciate da parte. La giustizia vuole che ci si occupi soltanto di Adolf Eichmann, figlio di Karl Adolf Eichmann, l’uomo rinchiuso nella gabbia di vetro costruita appositamente per proteggerlo: un uomo di mezza età, di statura media, magro, con un’incipiente calvizie, dentatura irregolare e occhi miopi, il quale per tutta la durata del processo se ne starà con lo scarno collo incurvato sul banco (neppure una volta si volgerà a guardare il pubblico) e disperatamente cercherà (riuscendovi quasi sempre) di non perdere l’autocontrollo, malgrado il tic nervoso che gli muove le labbra e che certo lo affligge da molto tempo. Qui si devono giudicare le sue azioni, non le sofferenze degli ebrei, non il popolo tedesco o l’umanità, e neppure l’antisemitismo e il razzismo. E la giustizia, anche se forse è un’”astrazione” per le persone della mentalità di Ben Gurion, si rivela molto più austera del potente Primo ministro. La regia di quest’ultimo, come il sig. Hausner non esita a dimostrare col suo comportamento, è un po’ facilona: permette che il Pubblico ministero conceda conferenze- stampa e interviste alla televisione durante il processo (il programma americano organizzato dalla Glickman Corporation è costantemente interrotto dalla réclame di prodotti - gli affari innanzitutto, come sempre) e si abbandoni anche a “sfoghi spontanei” nell’edifìcio stesso del tribunale (è qui che Hausner confida ai giornalisti di essere stufo d’interrogare Eichmann, il quale risponde sempre con menzogne); permette che l’occhio si soffermi spesso sul pubblico e che si metta in mostra una vanità eccessiva, la quale avrà il suo trionfo alla Casa Bianca, quando il Presidente degli Stati Uniti si congratulerà per il “lavoro ben fatto.” La giustizia non permette nulla di tutto questo: richiede isolamento, vuole più dolore che collera, prescrive che ci si astenga il più possibile dal mettersi in vista. Quando, poco dopo il processo, il giudice Landau visiterà l’America, attorno al suo viaggio non si farà tanta pubblicità, tranne che nei circoli ebraici per i quali quel viaggio verrà compiuto.

Ed ora, per quanto schivi e compresi del loro dovere, i giudici erano lí, seduti alla loro cattedra, di fronte al pubblico come in un teatro. Il pubblico doveva rappresentare il mondo intero, ed effettivamente nelle prime settimane fu costituito in prevalenza da corrispondenti di quotidiani e riviste, accorsi a frotte a Gerusalemme dai quattro angoli della terra. Dovevano assistere a uno spettacolo non meno sensazionale del processo di Norimberga; solo che questa volta il tema centrale sarebbe stato “la tragedia del popolo ebraico nel suo complesso.” Se infatti ad Eichmann “contesteremo anche crimini contro non ebrei,” ciò avverrà non tanto perché li ha commessi, quanto “perché non facciamo distinzioni etniche.” Frase davvero singolare, in bocca a un Pubblico ministero, e questa frase, pronunziata nel discorso di apertura, si rivelò essenziale per capire tutta l’impostazione data dall’accusa al processo: ché il processo doveva basarsi su quello che gli ebrei avevano sofferto, non su quello che Eichmann aveva fatto. Distinguere tra le due cose, secondo Hausner, non aveva senso, perché “ci fu solo un uomo che si occupò quasi esclusivamente degli ebrei, che aveva il compito di distruggerli, che nell’edificio dell’iniquo regime non aveva altra funzione: e quest’uomo fu Adolf Eichmann.” Non era dunque logico esporre dinanzi alla Corte tutti i fatti, tutte le tragiche vicende degli ebrei (anche se naturalmente nessuno le aveva mai messe in dubbio) e poi isolare gli elementi che in un modo o nell’altro dimostravano l’esistenza di una connessione tra l’operato di Eichmann e ciò che era accaduto? Sempre secondo Hausner, il processo di Norimberga, dove gli imputati erano stati “giudicati per crimini contro cittadini di varie nazionalità,” aveva trascurato la tragedia del popolo ebraico per la semplice ragione che Eichmann non sedeva al banco degli imputati.

Hausner riteneva veramente che a Norimberga ci si sarebbe occupati di più del destino degli ebrei se Eichmann fosse stato presente? È difficile crederlo. Come quasi tutti in Israele, cosí anche Hausner pensava che soltanto un tribunale ebraico potesse render giustizia agli ebrei, e che toccasse agli ebrei giudicare i loro nemici. Di qui il fatto che in Israele nessuno voleva sentir parlare di un tribunale internazionale, perché questo avrebbe giudicato Eichmann non per “crimini contro il popolo ebraico,” ma per “crimini contro l’umanità commessi sul corpo del popolo ebraico.” Di qui la strana vanteria: “Noi non facciamo distinzioni etniche,” vanteria che ci apparirà meno singolare se si pensa che in Israele la legge rabbinica regola la vita privata dei cittadini, col risultato che un ebreo non può sposare un non ebreo; i matrimoni contratti all’estero sono riconosciuti, ma i figli nati dai matrimoni misti sono, per legge, bastardi (i figli nati da genitori ebrei fuori del vincolo matrimoniale vengono legittimati), e se uno ha per caso una madre non ebrea, non può sposarsi e non ha diritto al funerale.