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di Giorgio Spangher*

Il Dubbio, 31 agosto 2022

Si può dire. Non è il processo che volevamo; che molti avrebbero voluto. Anche perché quasi sempre ci si dimentica, o si fa finta di dimenticare, che la riforma di cui stiamo parlando si innesta nell’impianto dell’AC 2435, cioè nella proposta di riforma voluta dal ministro Bonafede, ministro dell’epoca. Sicuramente modificato in alcuni aspetti nevralgici, come in materia di immediatezza per la modificata composizione del collegio giudicante (art. 190, comma 1 bis, appunto della proposta), ma significativamente superato e ora più garantito soprattutto rispetto alla criticatissima Sez. un. Bajrami, ma anche integrato nella l. n. 134 del 2021 dall’introduzione dell’art. 344 bis c. p. p., che non ha mancato di sollevare non poche perplessità (ancora di recente dagli stessi artefici della mediazione con l’art. 161 c. p. p. che ha previsto la interruzione della prescrizione con la sentenza di primo grado) che hanno prefigurato una iniziativa abrogatrice ne riserva più di un narratore. Non casualmente del resto i profili più avanzati elaborati dalla Commissione Lattanzi (archiviazione meritata e inappellabilità della sentenza di proscioglimento da parte del p. m., pur controbilanciata da motivi specifici per l’appello dell’imputato, solo per citare alcune proposte) non hanno avuto seguito.

L’impianto della riforma, la sua filosofia, è sicuramente stata condizionata dalla necessità di rispettare i vincoli europei legati al Pnrr. Non è detto, tuttavia, da un lato, che l’obiettivo del decongestionamento del carico giudiziario dovesse essere perseguito con le modalità, cioè, con tutte le modalità contenute nello schema di legge delega. A volte si ha la netta sensazione che, complice il citato obiettivo e l’emergenza Covid, si sia voluto cogliere l’occasione per scelte non necessitate, ma piuttosto frutto di opzioni che sembrano trascendere quelle finalità e perpetuare una situazione ritenuta maggiormente funzionale a scelte precisamente orientate alla efficienza, trasformata in autentico modello ideologico.

Quanto detto emerge con forza dall’accentuato riferimento e dalla precisa volontà di favorire il processo a distanza, nonché la cartolarizzazione di qualche fase e grado del processo, accompagnato da una forte spinta al rito camerale. Come anticipato, questa scelta, resa necessaria dalla emergenza pandemica, ha assunto una dimensione molto ampia, in ordine alla quale la scelta dell’imputato e della difesa, giustificata in ragione del contesto eccezionale, non ha più piena ragione d’essere. Si potrebbe obiettare che in molti casi sono scelte soggettive (ancorché immotivate) ma che tuttavia nella misura in cui incidono su diritti fondamentali dovrebbero in qualche modo - ma così non pare - interessare anche gli organi giudicanti, che sono ritenuti (spesso) indifferenti a queste scelte (nonostante i riferimenti a provvedimenti autorizzativi).

Molti di noi hanno vissuto nella loro attività la partecipazione a distanza (spesso l’epidemia è stata un alibi comodo da utilizzare) ma tutti noi abbiamo sperimentato e stiamo sperimentando il profondo significato della presenza fisica e del contatto personale che va anche al di là di quel particolare atto o di quella speciale attività. Non vanno trascurati i riferimenti convenzionali alla pubblicità e alla necessità di assicurare la possibilità - nei casi previsti dalla legge - della presenza e del controllo del pubblico sullo svolgimento del processo, probabilmente non disponibile dalle parti processuali (sintomatica la norma, velata di ipocrisia, del giudizio abbreviato per superare eventuali profili di incostituzionalità). Un secondo profilo significativo è quello che richiamando una frase di Tullio Padovani può essere definito il processo come un processo connotato da una vena di soave inquisizione.

Non è azzardato affermare che una lettura attenta dei meccanismi processuali della riforma ci consegna un retrogusto - di sapore antico - non tanto marginalmente impostato nei termini appena riferiti.

Invero, non può negarsi l’intento del legislatore di edulcorare i profili sanzionatori peraltro, giustamente prevedendo l’effettività della pena pecuniaria (i cui “tassi giornalieri” possono risultare, a discrezione del giudice, anche molto elevati) - considerata la ritenuta impossibilità di scelte più incisive - con ricadute positive sull’attuale sistema carcerocentrico. Tuttavia, la soluzione individuata consegna al giudice un accentuato potere discrezionale accompagnato dalla propensione alla “definitività” delle decisioni di condanna, favorite dai limiti alle impugnazioni (la cui rinuncia viene premiata con sconti significativi di pena, che in alcuni casi si inseriscono in esiti già premiali sotto il profilo sanzionatorio) nonché con percorsi essi pure premiali connessi all’adesione dell’imputato alla prospettazione accusatoria.

L’abbinamento di attenuati strumenti punitivi e di premialità processuali, che si ripercuotono sugli sviluppi esecutivi, accentuati dalle previsioni degli esiti decisori incardinati sui poteri di indagine della polizia giudiziaria e del pubblico ministero, i costi individuali sia economici sia sociali, i vari ostacoli probatori e non solo sulla strada di un accertamento di estraneità al reato o di ridimensionamento della colpevolezza, non sono estranei ad un sistema che non solo favorisce, ed induce in modo più o meno soft, in modo più o meno accentuato, a percorre la strada delle exit-strategies, con pregiudizio del pieno accertamento dei fatti, pur non mancando mai la possibile applicazione da parte del giudice dell’art. 129 c. p. p. (declaratoria immediata di proscioglimento).

Si ha la sensazione - quasi di impronta americana - di un processo spezzato in due; un sistema bifasico che complice anche la modifica alla prescrizione (spesso irraggiungibile) finisce con la sentenza di primo grado, ed un processo che non senza difficoltà e limiti per l’imputato si sviluppa nella fase delle impugnazioni, guardate con diffidenza, condizionate nei presupposti della legittimazione soggettiva e oggettiva nonché da adempimenti formali e sostanziali, con la inquietante prospettiva della declaratoria di inammissibilità, i cui confini già specificatamente ampliati dalla riforma, con un ulteriore estensione rispetto alle Sezioni Unite Galtelli, potranno a medio termine subire interpretazioni (manifesta infondatezza) ulteriormente dilatate, complice i richiesti riferimenti di diritto a supporto di “ogni richiesta” (anche su un motivo inammissibile non rende inammissibile tutto l’atto di gravame).

Nella conservata struttura procedimentale (seppur con le considerazioni svolte) e con la novità di una udienza predibattimentale del rito monocratico, significativamente arricchito di competenza (anticipazione di una spinta al giudice singolo, che si era ipotizzato anche per il secondo grado), la riforma sembrerebbe delineare le figure soggettive (protagonisti e comprimari) in termini maggiormente funzionali ad un approccio “partecipato”, consapevole e professionale, alla “nuova” visione del processo penale. L’ipotizzata scelta valoriale. Il condizionale è d’obbligo. Si vedrà. Il dato è inevitabile in quanto il processo penale vive di equilibri instabili dovendo sempre comporre le esigenze generali connesse ai contesti criminali con le istanze individuali di tutela. Non è azzardato, quindi, sostenere che la riforma Cartabia costituisca uno step di cui, tuttavia, già si sono delineate alcune linee di evoluzione.

Un discorso a parte, sicuramente collocato in questa dimensione, meriterebbe l’introduzione nel nostro sistema di giustizia penale della giustizia riparativa già reso incandescente dalla contrapposizione di letture tra Mazza, Passione e Zilletti. Non mancherà l’occasione per qualche meditata riflessione sul controverso profilo dell’art. 129 bis previsto dalla riforma, soprattutto in relazione ai poteri officiosi del giudice.

*Emerito di diritto processuale penale all’Università La Sapienza di Roma