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di Maria Elena Barnabi

Gente, 20 gennaio 2023

“Grazie alla musica possono esprimere le loro emozioni”, dice il fondatore dell’Associazione 232. Dal progetto con il carcere minorile Beccaria è nato un cd.

Sono tutti trentenni, sono pieni di entusiasmo e di bravura e la loro missione è lavorare nelle carceri minorili e con ragazzi in difficoltà, con uno strumento molto particolare: il rap. Sono gli operatori dell’Associazione 232, onlus nata nel 2019 grazie allo sforzo di educatori professionisti da sempre impegnati nel recupero di ragazzi in situazioni limite. Per ora il loro laboratorio principale è nel carcere minorile Beccaria di Milano (232 è l’interno telefonico della struttura), mentre sul territorio sono attivi in varie scuole in zone più o meno roventi del capoluogo lombardo e in comunità penali, ma l’idea è quella di espandersi e di fare rete con le altre associazioni presenti nelle carceri. Dal laboratorio nel Beccaria, grazie alla Carosello Records che ha messo lo studio di registrazione e i tecnici, è nato anche un cd: si chiama 232 Mixtape, ed è un progetto discografico fatto da tredici giovanissimi, dieci rapper e tre producer, che lavorano con l’Associazione 232. Per ora il disco non è in vendita, ma si può ascoltare su YouTube, mentre a breve dovrebbe partire un mini tour. E chi volesse può anche sostenere la 232: tutti i dettagli sono sul sito www.associazione232.org.

Come funziona questo progetto ce lo racconta Fabrizio Bruno, fondatore dell’Associazione 232, che da tredici anni lavora come educatore nel carcere minorile Beccaria: “Ci sono entrato mentre facevo lo stage per la mia laurea in Scienze dell’educazione, e ci sono rimasto”.

Che età hanno i vostri ragazzi?

“L’età media è di circa 18 anni, ma nelle carceri minorili ci sono tanti ragazzi più giovani. Assurdo”.

Hai 33 anni e lavori in carcere da quando ne hai 20. Che cosa ti colpisce di questa realtà?

“Che la società non abbia ancora trovato una modalità alternativa per gestire questi problemi. Secondo me tra dieci anni guarderemo indietro e diremo: “Tu pensa che pazzi, un secolo fa mettevamo i ragazzi in prigione”.

Perché il carcere non funziona con i giovani?

“È uno strumento totalizzante in un’età molto delicata. Il criterio per cui si finisce in galera può essere poco equo: a volte succede per una cretinata fatta in una serata storta, per un episodio sbagliato, per un errore. Per carità, è giusto che la società dia una risposta, ma bisognerebbe anche capire perché i ragazzi sbagliano. E poi magari il carcere non sempre è la risposta giusta, viste le recidive che ci sono negli anni, oppure visti gli ottantaquattro suicidi che ci sono stati nelle carceri italiane nell’ultimo anno”.

In che modo il rap può aiutare? “Intanto è uno strumento semplice, con poche regole, lo possono fare tutti. Ed è uno strumento di analisi, che ti permette di rielaborare le emozioni: esprime il pensiero attraverso le parole. Lo rende concreto. Poi ci risuona dentro: usa un tempo che è molto simile a quello del nostro cuore, viaggia intorno ai 90 bpm (in inglese beats per minute, cioè battiti al minuto, ndr), e ci ricorda un suono atavico, il cuore della mamma che sentivamo quando eravamo nel pancione. È arte, e l’arte aiuta sempre”.

Cosa cantare lo decidono i ragazzi? “Sì. Noi magari li spingiamo a descrivere un momento importante della loro vita e a farlo capire agli altri. Così le parole non sono mai scelte a caso. E per i ragazzi fare ordine, perché per scrivere bisogna fare ordine, serve a rielaborare, a rivivere, a rileggere”.

Qual è la cosa bella di questo progetto?

“Tutti i ragazzi mi dicono che l’adrenalina che provano quando cantano sul palco è un’esperienza che non avevano mai vissuto. Non è la scarica che provi quando fai una rapina, quando assumi una sostanza o mentre scappi. È una sensazione positiva che avverti mentre restituisci qualcosa di bello alla società. Cambia tutto”.

A Milano c’è una scena rap molto attiva. Vi sostiene?

“Tantissimo. Abbiamo fatto una raccolta fondi e molti artisti ci hanno regalato cose che poi abbiamo dato come premi: Mahmood, Fabri Fibra, J-Ax, Nina Zilli, Ghali, Ernia... Altri si sono fatti intervistare dai ragazzi: produciamo un programma, si chiama Beccati, che gira sul nostro canale YouTube. Gli artisti ci sono vicini”.

Dove ti vedi tra dieci anni?

“A fare questo lavoro, sempre, 24 ore al giorno. Noi non abbiamo un prodotto da vendere e i nostri laboratori sono gratuiti. Viviamo dei bandi, dei concorsi, dei soldi che ci possono dare le fondazioni, e una parte del nostro tempo è speso anche nel cercare risorse. Sarebbe bello riuscire a sensibilizzare tante persone. Il nostro piccolo sogno è che in tutte le carceri italiane siano presenti realtà come la nostra. E poi ci piacerebbe avere uno spazio dedicato, dove poter fare attività tutto il giorno con i ragazzi. Noi ci crediamo davvero”.