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di Damiano Aliprandi

Il Dubbio, 28 marzo 2023

Dal 2017 è entrato nel nostro ordinamento dopo le sentenze Cedu sulle violenze al G8 di Genova e nelle carceri. Processi e sentenze ne smentiscono la problematica applicabilità sollevata da Fratelli d’Italia. Una delle motivazioni addotte da Fratelli D’Italia per giustificare la modifica del reato di tortura, di fatto abolendolo, è che la Polizia penitenziaria rischierebbe di subire denunce e processi strumentali che potrebbero disincentivare e demotivare la loro azione contenitiva. Eppure, tale reato esiste da oltre vent’anni nel nostro codice penale militare di guerra nell’articolo 185-bis. Nessuno ha sollevato obiezioni del genere, a maggior ragione in un contesto decisamente più problematico.

Fino a pochissimi anni fa (solo nel 2017 è stato introdotto il reato), c’è stato il paradosso che gli obblighi internazionali (la Corte europea ci aveva sanzionati) appaiono rispettati nell’ordinamento italiano solo nell’ambito del diritto militare di guerra e non nel diritto penale “ordinario”. Tale inadempienza, ha portato la Corte europea dei diritti dell’uomo (Affaire “Cestaro c. Italia”) a sanzionare l’Italia in quanto, con riferimento alle violenze della polizia nella Scuola Armando Diaz al termine del G8 di Genova, “la legislazione penale italiana applicata nel caso di specie si è rivelata, al contempo, inadeguata quanto all’esigenza di sanzionare gli atti di tortura in questione e priva dell’effetto dissuasivo necessario a prevenire altre violazioni simili dell’art. 3 Cedu”. Proprio a seguito della condanna della Cedu l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi ha annunciato una accelerazione dell’iter della proposta di legge a firma dell’allora senatore Luigi Manconi, fino alla sua approvazione. Una proposta di legge che era stata presentata nel 2013.

Ad accelerare l’approvazione della legge sul reato di tortura non è solo la sentenza sui fatti del G8 di Genova, ma anche quelle sul carcere. Diverse sono state le sentenze Cedu che, a seguito delle violenze sui detenuti da parte di alcuni agenti penitenziari, hanno evidenziato la problematica della mancata introduzione di tale reato. Parliamo del caso “Cirino e Renne c. Italia”. Nell’ottobre del 2017 viene pronunciata questa sentenza che vede l’Italia ancora una volta protagonista relativamente ad alcune vicende che si sono svolte nell’istituto penitenziario di Asti. Si tratta questa volta dei ricorsi proposti da Andrea Cirino e Claudio Renne nel dicembre 2014, le cui osservazioni denunciano la violazione ancora una volta dell’art.3 Cedu riguardo ai maltrattamenti a cui sono stati sottoposti nel dicembre 2004, durante il loro periodo di detenzione; la inadeguatezza della condanna verso i responsabili; e il fallimento dello Stato di porre in essere tutte quelle misure necessarie dirette a una efficiente prevenzione degli episodi di tortura e trattamenti inumani e degradanti.

I ricorrenti avrebbero, a seguito di un alterco con un comandante di reparto della polizia penitenziaria, subito la reclusione in due diverse celle d’isolamento, dopo essere stati percossi da vari agenti. Privi di un materasso o coperte, di acqua corrente e di riscaldamento, i detenuti sono stati soggetti a violenze e percosse per almeno una settimana, privati del sonno, offesi verbalmente e costretti praticamente al digiuno ed alla somministrazione di piccole quantità d’acqua. Il 16 dicembre 2004, il ricorrente Renne viene condotto in ospedale a causa della sua precaria condizione di salute a seguito dell’isolamento. Il 7 luglio 2011, cinque agenti della polizia penitenziaria sono portati a processo con le accuse di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p., le aggravanti di cui all’art. 61 c.p. n. 9, lesioni personali ex art. 582 c.p. e abuso di autorità contro arrestati o detenuti ex art. 608 c.p.: tutti i reati però prescritti durante il procedimento.

Sul versante delle sanzioni disciplinari, che corrono su un binario parallelo rispetto ai procedimenti penali, soprattutto in relazione alla tortura e ai trattamenti inumani, vediamo l’applicazione della sospensione dal servizio dai 4 ai 6 mesi (nessuno di queste però disposte durante l’indagine), e solo due agenti licenziati, di cui uno reintegrato. Le Corti Italiane non possono fare altro quindi che confermare l’accertamento dei fatti così come descritti dai ricorrenti, in un contesto (quello degli anni 2004 e 2005), in cui è ravvisata nel carcere di Asti una sistematica pratica di maltrattamenti simili nei confronti dei detenuti considerati “problematici”. Tutto questo è avvenuto nella più completa impunità dovuta all’acquiescenza dell’allora amministrazione penitenziaria riguardo a tali incresciosi episodi di violenza.

La Corte di Strasburgo anche questa volta non nutre dubbi sulla qualificazione delle sevizie subite dai ricorrenti come tortura ai sensi dell’art. 3 Cedu considerando: la reiterazione delle torture che hanno portato all’ospedalizzazione di una delle due vittime; gli effetti psicologici derivati dal trattamento considerando anche la situazione di vulnerabilità in cui verte chiunque sia sottoposto alla custodia di agenti di polizia; l’azione combinata di violenza fisica e privazioni materiali completamente gratuite; la premeditazione ed organizzazione da parte degli agenti; la sistematicità del maltrattamento all’interno dell’istituto e l’elemento volontaristico diretto verso un obiettivo repressivo, punitivo verso i detenuti, nella convinzione di creare un monito diretto agli altri condannati che rafforzasse la disciplina all’interno del carcere. Anche in questo caso, la Cedu ha parlato dell’assenza del reato di tortura all’interno del codice penale italiano.

Il dramma è che il testo della proposta di legge di FdI approdata in commissione Giustizia, osserva che “la struttura della norma non permette tra l’altro di stabilire con chiarezza se la figura tipizzata al secondo comma abbia natura circostanziale o sia una fattispecie autonoma di reato, creando notevoli difficoltà applicative - anche in relazione al possibile bilanciamento di circostanze - che la giurisprudenza si troverà a dover affrontare”. Ma i fatti smentiscono tale assunto. Non solo dai processi in corso, ma anche da alcuni esiti giudiziari come le condanne nei casi del carcere di Ferrara e San Gimignano. Nonostante l’attuale legge sia in realtà debole (ad esempio il reato viene ricollegato a più condotte), alla fine la giurisprudenza non ha trovato difficoltà applicative.

L’Italia è stato l’ultimo Paese europeo ad aver introdotto il reato di tortura, dopo decenni di resistenze e condanne da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, e rinunciare ora a questa conquista di civiltà significherebbe operare per riportare il Paese indietro anziché promuoverne il progresso. L’esistenza del reato di tortura non impedisce alle forze dell’ordine di svolgere diligentemente il loro lavoro, anzi, è una misura che tutela anche chi opera per il rispetto della legge. D’altronde, come detto in premessa, tale reato esiste già nel codice militare e non è certo ostativo al lavoro dei nostri soldati. Figuriamoci nelle carceri o nelle strade, dove non si è in guerra. E se anche lo fosse (ma non deve esserlo, perché non siamo l’Iran), la tortura deve essere sanzionata e inquadrata nel nostro ordinamento “ordinario” così come richiesto ripetutamente dalle corti internazionali.