di Riccardo Lo Verso
Il Foglio, 30 novembre 2024
Là dove la caccia ai boss fa allentare le regole. Persino Angiolo Pellegrini rinviato a giudizio: era un uomo di Falcone. Nell’antimafia c’è una terra di mezzo dove gli investigatori si muovono sul filo del rasoio. Equilibristi, in bilico tra l’esigenza di rispettare le norme del codice e l’urgenza di una giustizia sostanziale, che comprime la certezza del diritto ma è più gratificante per sé stessi e per gli altri. Le regole si allentano o, peggio, vengono violate. È una zona opaca, luogo di intrighi e traccheggi con boss irredimibili e pentiti. Una camera oscura dove persino lo splendore degli eroi perde lucentezza. C’è chi varca pericolosi confini e sprofonda perché prima o poi i segni che si lasciano lungo la strada vengono scoperti.
Gli ultimi trascinati fuori dal retrobottega della giustizia sono Angiolo Pellegrini e Alberto Tersigni. Due generali rinviati a giudizio a Caltanissetta. Per quale ipotesi di reato? Cos’altro se non per depistaggio, parola entrata con prepotenza nei resoconti giudiziari degli ultimi decenni che evoca l’aria stantia dei sottoscala delle questure e delle stanze buie delle Procure. Quella di Caltanissetta, che da anni ormai indaga sul dietro le quinte malsano dell’antimafia, contesta a Pellegrini e Tersigni di avere ostacolato e deviato in un vicolo cieco le indagini per riscontrare le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Pietro Riggio. Se avessero fatto bene il loro lavoro avrebbero potuto arrestare Bernardo Provenzano prima del 2006 e svelare un progetto di attentato al giudice Leonardo Guarnotta, un tempo pubblico ministero del pool antimafia guidato da Antonino Caponnetto, quando era presidente del Tribunale di Palermo che processava per mafia Marcello Dell’utri.
Al netto del déjà vu che riporta alla mente le vicende del generale Mario Mori, processato e assolto per la mancata cattura di Provenzano e la trattativa stato-mafia, la presenza di Pellegrini nella lista dei presunti cattivi spariglia le carte più di altri. Destabilizza, e non poco, perché obbliga a misurarsi con la possibilità che anche Giovanni Falcone, di cui l’ufficiale è stato uno dei più leali investigatori, possa essersi fidato dell’uomo sbagliato. E cioè di qualcuno che un giorno, nella migliore delle ipotesi, avrebbe commesso delle leggerezze investigative o, nella peggiore, si sarebbe reso protagonista del più clamoroso dei voltafaccia dando una mano a Provenzano. Lo stesso Provenzano del quale, sotto il coordinamento di Falcone, Pellegrini aveva ricostruito il profilo criminale. Non solo del corleonese Binu per la verità, ma pure di Michele Greco, il “papa” di Cosa nostra, di don Saro Riccobono e degli altri boss inseriti nel “rapporto dei 162” che fu la base del maxi processo. Su quel rapporto c’era la firma dell’allora giovane capitano Pellegrini, nome di battaglia “Billy the Kid”.
E così succede che il giorno prima Pellegrini scrive la sua autobiografia - “Noi, gli uomini di Falcone” s’intitola - ritenendo di essersi guadagnato un posto nel piazzale de gli eroi per la sua esperienza nella trincea dell’antimafia, e il giorno dopo si ritrova imputato. Gli anni al fianco di Falcone non lo hanno “salvato” dal rinvio a giudizio. Dalla sua ha l’attenuante di essersi imbattuto nel retrobottega in Riggio, personaggio scivolosissimo. Paludoso per certi aspetti, sulla cui attendibilità diverse procure hanno sollevato perplessità. Faceva l’agente di polizia penitenziaria, poi l’hanno arrestato per mafia ed estorsione. Collaborava con la giustizia dal 2009, ma ci ha messo anni prima di riferire le confidenze di un ex poliziotto e compagno di cella, Giovanni Peluso. E che confidenze: avrebbe imbottito di tritolo l’autostrada per l’attentato di Capaci. Era il 2018 e il dietro le quinte iniziò a stargli stretto. Riggio prese carta e penna e scrisse alla Procura di Firenze. Non lo aveva fatto prima per “paura”. Le cose erano cambiate, c’era stata la sentenza di primo grado di Palermo sulla trattativa stato-mafia. Si era confuso, visto che quando chiese di conferire con i pm toscani il verdetto non era stato ancora emesso. Di storie, tutte non verificabili, ne ha raccontate parecchie. Si è spinto a sostenere che i servizi segreti, italiani e libici (a Capaci a suo dire c’era pure una misteriosa donna dalla pelle scura), parteciparono alla strage, facendo credere a Giovanni Brusca di avere schiacciato il telecomando che innescò l’esplosione lungo l’autostrada. Nei suoi racconti il retrobottega ha una collocazione precisa, la sede della Dia a Roma, dove lo convocarono per un interrogatorio. Prima che arrivasse il magistrato di Firenze i carabinieri gli proposero di entrare a far parte di una squadra riservata per arrestare Provenzano. Ci avrebbe messo poco Riggio a capire che era una farsa. Nessuna voglia di catturare il latitante, semmai di acquisire notizie visto che “i carabinieri non è che lo vogliono prendere”. Tutto divenne più chiaro quando Riggio ricevette una risposta a una lettera che aveva inviato allo stesso Provenzano. “Tu non devi fare il mio nome”, c’era scritto. A questo punto sarebbe entrato in gioco Peluso, che sarà processato assieme a Tersigni e Pellegrini ma per concorso esterno in associazione mafiosa, che avrebbe convinto Riggio a infiltrarsi nella famiglia mafiosa di Caltanissetta per “attingere notizie utili alla cattura del latitante Bernardo Provenzano”, ma che in realtà sarebbero state spifferate al padrino corleonese in uno dei tanti anfratti della giustizia.
Ce n’è uno dove l’aria è più pesante che altrove, ed è il luogo dove sono stati indottrinati i falsi pentiti come Vincenzo Scarantino con la forza convincente delle bastonate. È accaduto che i collaboratori di giustizia venissero addestrati. Nella camera oscura della giustizia non rispondevano più alla magistratura, ma agli agenti a cui era affidata la loro vita a centinaia di chilometri di distanza lontano da casa.
Scarantino, malacarne di mezza tacca, è diventato il simbolo del sistema che traccheggiava con i pentiti, preparato a mentire sulla strage Borsellino dal super poliziotto Arnaldo La Barbera, i cui meriti investigativi gli valsero la guida del gruppo che indagava sulle stragi di mafia. Nessuno, neppure i magistrati, si era accorto che tramava e stava consegnando un manipolo di colpevoli fasulli all’opinione pubblica. Se per fare in fretta e venire celebrato come il più grande degli eroi o per proteggere qualcuno non è dato sapere. Chi poteva immaginare un tradimento simile. E assieme a lui sono finiti nella polvere i poliziotti che rispondevano ai suoi ordini. Se convinci qualcuno a recitare un copione stringendogli gli attributi puoi sempre contare sul suo silenzio una volta tirati su i pantaloni. I segni delle torture no, sono difficili da coprire.
Nel retrobottega della giustizia accade l’imprevedibile. Ad esempio che un fidato finanziere, Giuseppe Ciuro, diventi la talpa di un mafioso. Ogni mattina, come se nulla fosse, andava a lavorare al palazzo di giustizia di Palermo. Faceva l’assistente di Antonio Ingroia, il più duro e puro fra i duri e puri pubblici ministeri della Procura di Palermo. Seduti nella stessa stanza, uno accanto all’altro. Nel frattempo Ciuro era stato reclutato nella rete di informatori organizzata da Michele Aiello, mafioso di Bagheria (l’inchiesta è la stessa che coinvolse l’ex governatore siciliano Totò Cuffaro), il quale aveva spiegato a Provenzano che i soldi si potevano fare speculando sulla salute della gente. Divenne così un potentissimo manager della sanità privata, capace di allestire una clinica con attrezzature all’avanguardia che coprivano le falle dell’arretrato sistema sanitario pubblico. Scontata la condanna e passata la tempesta, Ingroia ha chiamato Ciuro al suo fianco come collaboratore nella sua nuova vita professionale da avvocato.
Un’altra tempesta che aveva il sapore amaro dell’harakiri si scatenò per colpa di Massimo Ciancimino. Che ingrato! Ingroia lo aveva reso un’icona dell’antimafia celebrando l’importanza delle sue fantasiose dichiarazioni sulla trattativa stato-mafia e il figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo lo “ripagava” straparlando. Si fece intercettare mentre spiegava che all’epoca del suo andirivieni dal palazzo di giustizia, dove lo convocavano per gli interrogatori un giorno sì e l’altro pure, l’ex magistrato lo lasciava da solo nella stanza della Procura, libero o quasi di armeggiare nel suo computer. E lui Ciancimino jr, talmente era il livello di familiarità raggiunto, si sentiva a casa propria e “faccio quello che minchia voglio là dentro, peggio per loro che mi lasciano là”. Così disse, affidando le parole alle microspie, suscitando un’ondata di indignazione salvo poi fare marcia indietro. Una delle tante, perché lui in quella stanza da solo - ammise dopo - non c’era rimasto. Ristabilì quella sintonia fatta di domande e risposte, con le seconde che in tanti passaggi degli interrogatori sembravano tarate per assecondare le prime.
A volte è l’esuberanza a rendere più complicate le cose, la voglia di raggiungere il risultato a tutti i costi ciò che spinge a seguire la via più breve e sbrigativa. Il sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia Gianfranco Donadio tra il 2009 e il 2013 se n’era andato in giro per le carceri italiane a sentire decine di testimoni e pentiti. Affascinato dall’ipotesi che dietro l’attentato di Capaci ci fossero i servizi segreti avviò un’indagine parallela - definirla in altro modo potrebbe apparire una diminutio di fronte alla mole di lavoro del solerte magistrato -, convinto di potere riuscire nell’impresa in cui tutti hanno fallito: trovare le prove senza le quali i processi si perdono e i teoremi si afflosciano. I magistrati di cinque procure - Palermo, Caltanissetta, Firenze, Catania e Reggio Calabria - competenti a indagare su stragi e attentati di mafia fecero notare l’ingerenza nel tentativo accomodante di risolvere la faccenda fra colleghi gentiluomini. Donadio smise di indagare.
Nel frattempo, però, aveva consegnato alla storia giudiziaria miti e figure per gli anni a venire. Ad esempio interrogò Vincenzo Lo Giudice, un tempo a capo di uno dei più potenti clan di Reggio Calabria, che in un improvviso quanto tardivo lampo di memoria si ricordò che a fare saltare in aria Paolo Borsellino era stato il poliziotto Giovanni Aiello, alias “faccia da mostro”, catalizzatore di nefandezze e accuse, morto da qualche anno di infarto. Voleva essere cremato, ma lo seppellirono perché non si sa mai, poteva sempre servire un nuovo rilievo scientifico sulla salma.
A proposito di iniziative parallele in carcere, qualche anno fa a discapito della proclamata voglia di muoversi nell’ombra fecero un gran rumore le visite di due parlamentari della Repubblica, Giuseppe Lumia del Pd e Sonia Alfano dell’italia dei Valori (esisteva ancora il partito di Di Pietro), ai boss sanguinari detenuti al 41 bis. Speravano di convincerli a pentirsi e già che c’erano magari contavano di raccogliere qualche delicatissima prova dell’esistenza della trattativa statomafia.
Era il 2012, il teorema del patto sporco era ancora in fase di indagini ma il battage mediatico-giudiziario lo aveva già reso una verità inscalfibile. Almeno così la spacciavano tentando di stordire l’opinione pubblica. I nostri eroi parlamentari in tournée a caccia di prove parlarono con Bernardo Provenzano, lo stragista di Brancaccio Filippo Graviano e Nino Cinà, il medico boss (quello del papello di Ciancimino jr per intenderci). Pare che Cinà prima di andare via avesse salutato Alfano con la più sibillina e vuota delle frasi: “Sono a sua disposizione, a 360 gradi”. Né Cinà, né qualcun altro si pentì al termine di quel tour. Di prove della Trattativa neanche a parlarne. Le hanno cercate senza esito, con ogni mezzo e senza limitazione di risorse, i pubblici ministeri figuriamoci se potevano riuscirci due volenterosi parlamentari.
Che poi, a voler parlare con franchezza, cosa mai potevano offrire in cambio Lumia e Alfano? I pentiti hanno bisogno di ben altro per collaborare. Chiedetelo all’avvocato Luigi Li Gotti che nella sua lunga carriera ha assistito i più importanti collaboratori di giustizia, da Tommaso Buscetta a Totuccio Contorno, da Giovanni Brusca a Francesco Marino Mannoia e Gaspare Mutolo. Era lo stato che gli affidava i pentiti, obbligati dal sistema a cambiare il proprio avvocato in una logica di equilibri e garanzie mai chiarita. Un do ut des opaco che nel tempo ha finito per generare storture nel fenomeno del pentitismo.
Tutto si aggiustava nelle mani dell’avvocato quando c’erano da spegnere tensioni e malumori. Chissà quanto ne avrà viste e sentite lui nella camera oscura della giustizia. Tante, a giudicare da alcune sue dichiarazioni dopo l’arresto di Matteo Messina Denaro. Si disse certo che il padrino di Castelvetrano e gli altri boss rimasti in fuga per anni avessero goduto “in quella zona grigia” dei favori di “qualcuno di importante, in grado di tutelare le latitanze”. Qualcuno che “non faceva parte dell’apparato di Cosa nostra, ma di altri livelli profondamente interessati a tutelare la latitanza”. Qualcuno molto in alto che spifferava l’arrivo delle forze dell’ordine e mandava all’aria ogni blitz. Investigatori e boss, si sa, traccheggiano e un giorno i pentiti fuori tempo massimo, magari gli stessi che assiste Li Gotti, ce lo verranno a raccontare.