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di Antonella Marandola

Il Riformista, 2 aprile 2024

Il tema del codice rosso e della violenza di genere, sempre esistente, ma emerso in maniera preponderante negli ultimi anni, ha assunto una poderosa valenza quantitativa nelle aule giudiziarie. Alla luce delle diverse stratificazioni normative e dell’ampia eco che alcuni gravi delitti hanno avuto è possibile sviluppare qualche minima riflessione di sistema sull’ennesimo fenomeno che la giustizia deve affrontare. Ebbene, quando il legislatore deve misurarsi con ripetuti eventi sociali (di varia natura) inevitabilmente mette in campo una articolata serie di interventi che cercano di “contrastare” (come s’intitola la l. n. 168 del 2023) le molte questioni che a quel “fenomeno” sono sottese. Tale processo ha un “doppio volto”: quello legislativo e quello esperienziale.

La legge si concentra, condivisibilmente, sulla tutela della vittima, dando vita ad un percorso accelerato e privilegiato che “neutralizza” gli episodi più pericolosi, anche attraverso strumenti “piegati ed adeguati” alle caratteristiche dei reati, originando un c.d. subprocedimento che, muovendo dall’idea della fragilità del soggetto “debole” - la cui condizione è rafforzata dalla legislazione europea che l’ha posta al centro del sistema- tratteggia un sottosistema processuale alterato e contratto, rispetto alla funzione e alla funzionalità del processo.

Tali processi possono essere un calvario, ma molteplici sono gli “effetti collaterali” a cui, nella prassi, il sottosistema del Codice Rosso dà luogo fin dalla fase delle indagini preliminari, in cui si sviluppa l’attività istruttoria, data la vulnerabilità della vittima, e, parallelamente, la ricerca della “vittima e del colpevole perfetto”, con buona pace della segretezza investigativa, della presunzione di innocenza e dei diritti dell’indagato, spesso pubblicamente “condannato”, prima che i fatti vengano processualmente accertati, assecondando quella repressione di massa che la collettività reclama, cedendo alle pulsioni “giustizialiste” primordiali, che solo uno Stato di diritto allontana. Il culmine di tale tendenza sono i movimenti che hanno negato all’indagato il beneficio di un difensore o concepito la stortura e confusione fra i concetti di giustizia, punizione e verità che - come insegna il prof. Giostra- oggi è celebrata solo quando la sentenza è di condanna e, a maggiore ragione, quando la pena è elevata. Ma non è tutto. La forte pressione mediatica si scontra con i luoghi e i tempi che il processo richiede e che, in uno Stato di diritto, è formato dalle “regole del gioco” di rango costituzionale e processuale, ispirate ai principi di democrazia, non sempre adeguate per i reati da Codice rosso, che richiedono regole di svolgimento del giudizio diverse e distoniche da quelle ordinarie.

È pacifico che la violenza contro le donne è una violazione dei diritti umani che richiede risposte in tema di sicurezza, protezione e recupero, ma è altrettanto vero che quelle prassi creano un grave vulnus al diritto di difesa già nel corso delle indagini in cui, spesso, si svolge un’istruttoria condotta dal gip, completamente spendibile nel processo. Se, poi, nel dibattimento la difesa recupera il diritto alla cross examination, esso troverà i limiti e le forme di un codice etico, costruito dai mezzi di informazione, che si sovrappone ai metodi e tecniche normativamente confezionati per far emergere il miglior accertamento del reato, ma “rei” di dar luogo alla cd. vittimizzazione secondaria. Il controesame o la rievocazione dei fatti di una donna che ha denunciato gravi forme di violenza è fatto doloroso, che impone il rispetto assoluto della sua dignità e l’uso di forme e termini linguistici che evitino accenni di carattere discriminatorio o moralistici, ma è questo un compito che spetta al giudice, che deve vietare le domande nocive, ma non quelle volte alla ricostruzione dei tempi e dei modi in cui i fatti sarebbero accaduti, per verificarne l’attendibilità e far emergere gli elementi sui quali dovrà decidere.

La legge permette di evitare propalazioni dannose per la vittima consentendo la celebrazione del processo, o di parti di esso, a porte chiuse ed è la stessa legge processuale che consente di infrangere ogni rigidissimo -e condivisibile- limite etico sotteso all’esame: consapevole dei difficili aspetti che convergono in tali tipi di processo il legislatore ha operato “a monte e in astratto” quel bilanciamento valoriale fra dignità e pudore e necessaria emersione della verità (processuale), dando assoluta prevalenza a quest’ultima, in quanto è il processo l’unico luogo deputato all’accertamento del fatto e l’esame incrociato -pur doloroso- lo strumento per far emergere i fatti su cui deve riposare la “giusta” responsabilità dell’imputato, rispetto ai quali il giudice deve essere terzo ed imparziale: gli è, infatti, estranea ogni opera moralizzatrice come indicano le censure europee di alcune sentenze.

Parimenti, in tempi di panpenalismo e giustizialismo, a tali tipi di processo non spetta quella difesa sociale che, erroneamente, gli si vuole assegnare, né la stagione “vittimocentrica” che stiamo vivendo e che ha -giustamente- installato nel codice di rito un’ampia e completa normativa a tutela della vittima, ne rende necessaria la collocazione nell’art. 111 Cost., teso solo a regolare il processo “giusto” a garanzia dell’imputato. È questa, forse, la vetta più alta (o più bassa) a cui la commistione tra processo, uso mediatico e politico della giustizia sta portando. Il dibattito è antico e, forse, interminabile, ma va rivendicata l’equità delle parti nel processo penale, il cui interesse è quello di giungere alla punizione del colpevole nel rispetto delle norme processuali: è questo il fine dell’accertamento della verità recepito dalla Costituzione, che non può essere offuscato.