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di Giovanni Bianconi

Corriere della Sera, 25 aprile 2022

A trent’anni dalla strage di Capaci, esce il 27 aprile da Bompiani il volume che fa rivivere eventi pubblici ma anche la paura e il coraggio dell’uomo. Nomi e accadimenti in uno stile che ricorda “American Tabloid” di James Ellroy.

Un racconto lungo quasi cinquant’anni, racchiuso tra due esplosioni. La prima nel 1943, in un vicolo di Corleone; la seconda nel 1992, sull’autostrada Punta Raisi-Palermo, poco prima dello svincolo per Capaci. La prima uccise Giovanni Riina, padre di Salvatore detto Totò, all’epoca appena dodicenne; la seconda Giovanni Falcone, dopo una vita spesa a cercare prove per processare e condannare quel Totò diventato un mafioso e un assassino che ordinava e consumava omicidi come fossero caffè.

Alla fine c’era riuscito, Falcone, a incastrare Riina, ottenendo l’ergastolo irrevocabile per lui e gli altri capi e sottocapi di Cosa nostra responsabili di centinaia di delitti, anche se restava il problema di arrestarlo e chiuderlo in un carcere. E per quella sentenza il capomafia s’è vendicato del suo giudice con la bomba: la seconda che ha segnato la sua esistenza, dopo quella che gli aveva tolto il padre mezzo secolo prima.

Ridotta all’osso, la storia è tutta qui. Ma tra quelle due esplosioni c’è un pezzo consistente di storia d’Italia: della mafia e dell’antimafia, delle collusioni del potere criminale con quello legale, e della resistenza solitaria di chi voleva spezzare i legami occulti; del terrore imposto a colpi di kalashnikov e tritolo, e di chi provava a fermarlo con la sola arma del Diritto; della paura che inevitabilmente assale chi decide di sfidare un avversario apparentemente imbattibile, e del coraggio necessario a superarla. Ritrovandosi ad affrontare le insidie e gli agguati dei nemici e dei finti amici, che dovrebbero combattere dalla stessa parte della barricata e invece ti ostacolano con la scusa che dietro la tua battaglia non ci sia brama di giustizia, ma di successo e di potere.

È la storia di Giovanni Falcone, che Roberto Saviano ha voluto raccontare con lo strumento del romanzo. Per dare corpo allo “spazio intimo dove ci si muove al riparo dei pubblici sguardi, dove maturano le scelte cruciali, si prova il dolore più profondo, si gioisce dell’ebbrezza più piena”, spiega. E per “seguire il percorso delle scelte, delle ragioni, fino a dove sono maturate prima di accadere; è ciò che la letteratura può fare per testimoniare la solitudine e il coraggio”.

Solo è il coraggio, dunque. Ma dietro la letteratura che esplora dettagli e sentimenti ci sono fatti veri, documentati e riscontrati da fonti e testimonianze accumulate nei trent’anni seguiti alla strage di Capaci e - prima ancora - mentre la storia si dipanava. Nomi, cognomi e accadimenti montati passando da un anno all’altro, da un episodio all’altro con stile e salti temporali che ricordano l’American Tabloid di James Ellroy. Qui però si parla dell’Italia che è stata e che è.

Nel 1943 Totò Riina è un sopravvissuto. Poteva morire anche lui con il padre dilaniato nel tentativo di estrarre esplosivo da un residuato bellico, e il fratello più piccolo; invece da lì comincia una nuova vita, che presto si trasforma in rapida scalata all’interno del potere mafioso: prima a Corleone e poi a Palermo, dove i clan tradizionali e dalle salde relazioni politiche, arricchiti dai traffici di droga che transitano fra l’Estremo Oriente e l’America, vengono scalzati dai viddani arrivati dalla campagna, guidati da Totò che non si ferma davanti a niente. Un rovesciamento di posizioni e di regole che rompe i vecchi schemi e richiede nuovi metodi d’indagine: quelli avviati dal giudice istruttore Falcone che, arrivato da Trapani, s’è messo a scavare nelle banche suscitando le preoccupazioni non solo dei mafiosi, ma pure del procuratore generale che chiede al capo dell’ufficio istruzione di fermarlo: “Ti sembra normale che questi devono vedersi arrivare ogni giorno la Finanza nelle loro filiali?”.

È il 1982. I boss, prima i palermitani e poi i corleonesi, si sono già sbarazzati di Michele Reina, Boris Giuliano, Cesare Terranova, Piersanti Mattarella, Emanuele Basile, Gaetano Costa, Pio La Torre e Carlo Alberto dalla Chiesa: politici, investigatori e magistrati ribellatisi al quieto vivere con cui mafia e antimafia tirano avanti da decenni. Morti ammazzati come, l’anno successivo, Rocco Chinnici, il capo dell’ufficio istruzione che non aveva fermato Falcone. E che aveva profetizzato tutto: “La mafia è cambiata, Giovanni. Questi qui non si fanno più problemi quando si tratta di… lo sappiamo, no?”.

Lo sapevano. Per questo Giovanni guardava l’allegria familiare che circondava Rocco con un misto d’invidia e di cupezza, e non riesce a scalzare l’inquietudine che diventa terrore quando osserva quei ragazzi sorridenti destinati a restare senza padre, fino a convincerlo che lui non può permetterselo: non si mettono al mondo orfani. Non l’ha fatto con la prima moglie, Rita, che poteva garantirgli le relazioni sociali “giuste”, ma non la felicità; e non lo fa con la seconda, Francesca, che sceglie di accompagnarlo in una missione dal finale già scritto.

Quando Chinnici salta in aria, nell’estate del 1983, Falcone è in Asia per le indagini sul narcotraffico che approda negli Stati Uniti passando dalla Sicilia; due anni dopo, nell’estate del 1985, quando i killer di Cosa nostra ammazzano i poliziotti Beppe Montana, Ninni Cassarà e Roberto Antiochia, viene prelevato da Palermo e deportato con Francesca e la suocera sull’isola dell’Asinara, insieme a Paolo Borsellino e alla sua famiglia. Due episodi che segnano l’inizio e la fine dell’inchiesta sfociata nel maxi-processo, un’impresa monumentale e mai riuscita prima, grazie alla quale si può finalmente vedere la mafia nel suo complesso, non solo il singolo delitto. È uno dei punti di svolta del romanzo, sottolineato dalle parole del protagonista: “La regola è sempre stata quella di mostrare i dettagli: un albero, una collina, una stradina… Noi qui abbiamo il panorama completo”.

Una visione dall’alto che Totò Riina non può tollerare, perché quel panorama rischia di infrangere equilibri e protezioni, politiche e giudiziarie. E quando arrivano le condanne in primo grado, Falcone sa che non è ancora una vittoria. Semplicemente “oggi la giustizia non ha perso”, si limita a commentare, perché la partita non è chiusa. Né quella con la mafia né quella con l’altro potere, rappresentato dai partiti politici e dai suoi colleghi.

Il giudice sa che la seconda è più complicata della prima, e decide di giocarla infilandosi nei gangli ministeriali, per provare a costruire lì ciò che prima gli è stato impedito, nella speranza di farla finire in maniera diversa da com’è sempre andata. L’esito è noto: contro i boss il giudice riesce a vincere, e gli ergastoli diventano definitivi; dentro le istituzioni invece continua a faticare fra trappole e offese, ma prima del fischio finale arriva la bomba a chiudere i conti.

L’autostrada che si sventra è il mondo che si capovolge, “girato sulla schiena, come una tartaruga in agonia”: Giovanni, muore insieme a tre agenti di scorta - Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo - e a Francesca. Lui sapeva che il destino si sarebbe compiuto, ma non quel giorno: “Se avesse saputo che l’ora era arrivata non avrebbe portato con sé la donna della sua vita. Era convinto di avere ancora qualche scampolo di vita da godersi, e qualche altro da rovinarsi”.

Nella breve premessa al romanzo, Saviano avverte il lettore: “Tutto questo è stato”. Ma avrebbe potuto scrivere l’ultima parola con la maiuscola: tutto questo è Stato, perché tutto è avvenuto all’interno delle istituzioni che hanno accolto, utilizzato, celebrato, accantonato, osteggiato e umiliato Giovanni Falcone in vita, prima di onorarlo come un martire da morto. Da trent’anni, questo è stato. Deciderà il lettore se con la minuscola o con la maiuscola.