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di Vladimiro Zagrebelsky

La Stampa, 4 novembre 2023

L’intenzione dichiarata della proposta di riforma è quella di riconoscere forza alla volontà del popolo elettore e di aumentare la cosiddetta governabilità in mano al presidente del Consiglio. Il risultato si otterrebbe con la elezione diretta del presidente del Consiglio, non più scelto in esito alle trattative tra i partiti che compongono la maggioranza in Parlamento. Le difficoltà dei governi recenti e di questo in particolare derivano però dal livello politico dei conflitti e dalla concorrenza tra i partiti alleati: più in generale dalla crisi dei partiti. Non pare che siano conseguenza di una debolezza del governo nell’elaborare iniziative di legge e ottenerne la approvazione in Parlamento. Da anni e con questo governo in maniera parossistica, la prassi dei rapporti tra governo e Parlamento si è allontanata dal testo e dal carattere proprio della Costituzione vigente. Il luogo e la responsabilità della funzione legislativa, che la Costituzione stabilisce essere il Parlamento, sono ora nelle mani del governo.

È divenuto normale il ricorso da parte governativa al decreto-legge, che entra immediatamente in vigore, per essere poi convertito in legge entro sessanta giorni. E se il Parlamento tarda o rilutta, il governo, se è il caso, presenta un suo maxi-emendamento in un articolo unico su cui pone la questione di fiducia. Il requisito della “straordinaria necessità e urgenza” richiesto dalla Costituzione per ammettere l’eccezionale spostamento di competenza legislativa dal Parlamento al governo è da tempo ignorato. Il Parlamento e persino la maggioranza che sostiene il governo sono messi alle corde, obbligati ad approvare ciò che vuole il governo. Ed è di questi giorni la notizia che i partiti della maggioranza, nei loro incontri a Palazzo Chigi, avrebbero deciso che i loro gruppi parlamentari non presenteranno emendamenti al disegno di legge di bilancio, che è ora in (forse inutile) discussione. Legislatore è dunque nella sostanza il governo e non il Parlamento. Il quale Parlamento, d’altra parte, ha dimostrato da lungo tempo di essere incapace di condurre in porto una qualunque riforma legislativa, tra le tante che la Corte costituzionale ha indicato come indispensabili in tema di diritti civili. Cosicché il Parlamento si è visto mangiar terreno anche dalla Corte.

Non si tratta, dicendo ciò, di protestare per lo stravolgimento nei fatti del disegno costituzionale dei rapporti tra governo e Parlamento, ma piuttosto di segnalare che la “governabilità”, in qualche modo abusiva, è più che assicurata. Con una considerazione aggiuntiva, che mette in luce come la crescita in potenza del governo, mentre ha indebolito il Parlamento, non ha lasciato indenni i presidenti della Repubblica, che si sono succeduti. Da molti anni ormai, di fronte al ricorso dei governi a decreti-legge né necessari, né urgenti essi hanno debolmente reagito, continuando ad autorizzarne l’emanazione, talora accompagnata da inefficaci lettere dirette al governo per dire che così non si dovrebbe fare. Non è questo il frutto di una sottovalutazione del dato costituzionale, ma è il risultato di una valutazione, di una prudenza della presidenza della Repubblica nei confronti dell’organo governativo, politicamente più forte.

Ora, con la riforma che si propone, si dice che i poteri del presidente della Repubblica non verranno toccati. Ma non è così. Ovviamente la elezione diretta del presidente del Consiglio priva o seriamente restringe per il presidente della Repubblica il cruciale potere di sciogliere il Parlamento. E poi è evidente che la legittimazione forte del presidente del Consiglio direttamente eletto, confrontata da quella di un presidente della Repubblica “non eletto”, produce un presidente della Repubblica messo in ombra e impegnato in inaugurazioni e discorsi; oppure crea le premesse di deleteri scontri tra due diverse e confliggenti legittimazioni. In ogni caso la riforma proposta apparentemente lascia al presidente della Repubblica lo scioglimento delle Camere e il conferimento dell’incarico al presidente del Consiglio eletto; in realtà si tratta di un ruolo puramente notarile.

Nel progetto la elezione dovrebbe avvenire con una legge elettorale maggioritaria, iscritta nella Costituzione con previsione di un premio del 55% assicurato al partito o alla coalizione che abbia ottenuto il maggior numero di voti (la maggior minoranza dei votanti), senza che ne sia richiesta una soglia minima (che potrebbe forse essere introdotta dalla legge elettorale ordinaria e alla maggioranza che l’approverebbe). Un simile sistema era previsto nella legge Calderoli (dal nome del suo ideatore), o porcellum (per il suo contenuto), e venne dichiarato incostituzionale perché incompatibile con la necessità di corretta rappresentanza del Parlamento rispetto agli orientamenti presenti nell’elettorato. Ora, per evitare l’incostituzionalità, la si iscrive nella Costituzione! Ma il problema resta ed è grave.

La riforma proposta prevede che il presidente del Consiglio eletto resti in carica per cinque anni: un lungo periodo, se confrontato alle normali dinamiche politiche. Si vuole assicurare al presidente eletto un lungo periodo di potere, ritenendo che sia eccezionale il verificarsi della necessità di sostituirlo. Invece di prevedere che in tal caso si vada a nuove elezioni, si immagina che un altro esponente nella stessa maggioranza, con lo stesso programma politico, possa sostituire il presidente eletto, evitando lo scioglimento delle Camere. Ma così si pensa che la situazione politica e le necessità di governo restino congelate. Il favore che una tale soluzione trova nei due partiti minori della attuale coalizione fa pensare che vogliano tenere aperta la via a manovre interne alla maggioranza, contro il presidente eletto e contro la soluzione di nuove elezioni. Ma si entra in collisione con la logica della elezione diretta del presidente, che ha una forte componente di fiducia nella persona dell’eletto. Quella persona trascina anche la composizione delle Camere con il sistema della scheda elettorale unica e così se ne assicura la fedeltà.

La “governabilità” che si cerca da parte del governo, nei rapporti con il Parlamento, è già ora nelle sue mani. E le difficoltà politiche tra i partiti della maggioranza non si curano con questo stravolgimento del sistema costituzionale. Soddisfatto, sul piano delle emozioni e della immagine, resterebbe il partito della presidente del Consiglio. Ora vede possibile una “nuova Repubblica”, perché “nulla sia più come prima”. Non dimentichiamo che i suoi antecedenti rimasero estranei alla preparazione della Costituzione repubblicana, che adottò la formula della democrazia parlamentare.